«La lodevole iniziativa dell’Associazione Nazionale dei Comuni d’Italia per un drastico intervento del legislatore volto ad eliminare la paralizzante ipoteca del reato di abuso di ufficio sulla quotidiana attività dei sindaci, sembra però alimentare un singolare equivoco, non solo mediatico». È quanto scrive il presidente dell'Unione Camere penali italiane (Ucpi) Gian Domenico Caiazza, dopo l'appello dei sindaci al premier per cambiare il "reato-trappola" che paralizza gli amministratori. Secondo il leader dei penalisti, infatti, «a sentire o leggere molti degli interventi sul tema», tra cui quello che ieri il Presidente della Camera Roberto Fico ha rivolto alla platea di Parma - «sembra quasi che le gravi distorsioni prodotte da questa magmatica fattispecie di reato siano una peculiare esclusiva dei primi cittadini nei comuni italiani». «Il tema è ovviamente molto più vasto - scrive Caiazza - sia perché ovviamente non può non riguardare tutti gli amministratori pubblici, sia perché la riflessione, se vuole essere seria e credibile, dovrebbe estendersi anche oltre l’articolo 323 del codice penale. Sicché dire, come fa il Presidente grillino della Camera, che “oggi ha una logica rivedere” il reato di abuso in atti di ufficio perché “i sindaci sono una grande comunità, hanno grandi responsabilità e bisogna ascoltarli” a me pare solo un modo per eludere la questione vera che occorre affrontare, e che è ben più complessa». Nel merito, spiega Caiazza, «il reato di abuso in atti di ufficio è da sempre la norma che il legislatore ha consegnato, insieme ad altre, agli Uffici di Procura per esercitare un indebito controllo general preventivo sull’attività della pubblica amministrazione e dunque sulla politica. Norme che per la loro indeterminata genericità si risolvono in quella che è stata efficacemente definita (Luciano Violante) come una sorta di “mandato a cercare” eventuali irregolarità o illiceità nella amministrazione pubblica, a prescindere da ben definite e chiare notizie di reato. È a tutti noto che la percentuale di condanne definitive per abuso in atti di ufficio è infinitesimale se raffrontata al numero di indagini che in nome di esso sono state aperte dagli Uffici di Procura di tutta Italia; indagini che hanno di per sé prodotto i propri effetti sostanzialmente sanzionatori già in quella fase, gravando di una pesante ipoteca lo svolgimento del mandato dell’amministratore indagato, quando non ponendolo perciò solo nella necessità di rimetterlo». Insomma, l'abuso d'ufficio è una sorta di grimaldello che le procure utilizzano per cercare dell'altro. Anche alla luce del fatto, prosegue Caiazza, che «l’abuso, data la sua definizione magmatica e residuale (“salvo che il fatto non costituisca più grave reato”, così esordisce la norma) permette di tenere in vita e legittimare comunque indagini sommariamente avviate per più gravi ipotesi di reato (corruzione, concussione, peculato) che con il tempo si dimostrino infondate: alla fine, male che vada, un abuso in atti di ufficio non potrà negarsi a nessuno». E questo, aggiunge, «è a ben vedere la distorsione più grave determinata dal mantenere in vita quella fattispecie di reato, e che riguarda - in forma ormai perfino più grave - anche una seconda fattispecie di reato, lo sciagurato “traffico di influenze”, introdotto da pochi anni a furor di populismo». «Nessun giurista serio è ad oggi in grado di spiegare con chiarezza quale possa essere in concreto e con certezza questa misteriosa condotta, un miscuglio indefinito tra una corruzione solo immaginata ed un millantato credito però mica tanto millantato. Un mostriciattolo giuridico senza capo né coda che infatti non produce praticamente mai condanne, ma alimenta invece, come e più dell’abuso in atti di ufficio, un indeterminato numero di indagini. E se per questo reatuncolo non sono consentite - deo gratias - intercettazioni telefoniche, non preoccupatevi: se i protagonisti sono più di tre (e tre cristiani li trovi sempre), sarà sufficiente contestare in fase di indagine una associazione per delinquere finalizzata al traffico di influenze per consentirsele», aggiunge il capo dei penalisti. «Dunque, altro che sindaci - conclude Caiazza -. Qui il tema è ancora una volta quello di una politica che si è stolidamente consegnata al controllo di legalità preventivo degli uffici di Procura, in nome di un diritto penale sempre più drammaticamente lontano dal suo ancoraggio ai principi costituzionali e liberali di tipicità e tassatività delle norme incriminatrici. Questo il Presidente Fico non lo sa, ma occorre invece che tutti lo comprendano, se vogliamo affrontare con serietà questa ennesima emergenza democratica»