Il sistema giudiziario italiano nell’ultimo periodo non sembra trovare pace. Dopo i noti casi di Palamara e delle nomine riguardanti il capo del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, un’altra notizia, con meno rilevanza mediatica ma che porta con sé altrettante preoccupazioni suscita nuove polemiche, questa volta in ordine al controverso principio di uguaglianza e di parità dei poteri tra le parti ( pubblico ministero da una parte e imputato con il proprio difensore dall’altra) in seno al procedimento penale.

IL TESTIMONE COL FOGLIO PREPARATO IN PROCURA

La problematica in questo caso trae origine proprio da un’aula giudiziaria ed è legata allo svolgimento di un’udienza dibattimentale: in particolare, dinanzi al Tribunale di Padova, durante l’esame di un testimone della pubblica accusa ( un testimone, peraltro, qualificato trattandosi di ufficiale di polizia giudiziaria), veniva notato tra le mani dello stesso una minuta contenente alcune domande scritte direttamente dal pubblico ministero. I difensori degli imputati hanno immediatamente chiesto l’esclusione della testimonianza, e il Tribunale, negando l’eccezione, si è limitato a dire che l’avrebbe valutata.

Il caso può sembrare di scarsa importanza, ma occorre rilevare che una procedura del genere innanzitutto lede le principali disposizioni in tema di formazione della prova, finanche di rango costituzionale, e in secondo luogo, se proseguisse priva di censure e ulteriori valutazioni, metterebbe in luce un’evidente disparità di trattamento tra la pubblica accusa e l’imputato, medesimi ingranaggi – di pari importanza – dello stesso procedimento penale.

LE NORME SONO CHIARE: LA “PROVA” VA ESCLUSA

Come detto, le disposizioni violate sono molteplici, a partire dall’articolo 111 della Carta costituzionale, la quale in maniera chiara garantisce che “il processo penale è regolato dal principio del contraddittorio nella formazione della prova”. La ratio sottesa a una simile norma è proprio quella di evitare situazioni del genere: la scelta operata in ordine al tipo di procedimento penale da instaurare nel nostro Paese aveva come base fondamentale la valutazione per cui la prova si avvicina tanto più alla realtà storica quanto più emerge da un esame multiplo delle parti che ne fa scaturire tutti i punti mancanti e lacunosi.

È proprio per queste ragioni che in dibattimento, la sede naturale dove si forma la prova – tra l’esame e il controesame delle parti – il testimone deve giungere privo di alterazioni e senza aver dialogato con alcuna delle parti: diversamente, risulta evidente come il meccanismo di formazione della prova subisca un cortocircuito irreparabile.

E infatti, in tema l’articolo 149 delle disposizioni di attuazione del Codice di procedura penale dispone proprio come sopra indicato.

La sanzione prevista nel caso di un testimone che ha avuto pregressi contatti con una delle parti ( e nel caso giudiziario ricordato è evidente come non solo pubblico ministero e ufficiale di polizia giudiziaria si fossero incontrati ma, anzi, è stata anche stilata una lista di domande che gli sarebbero state sottoposte) è disciplinata nell’articolo 191 del codice di rito, che in tema di prove illegittimamente acquisite sancisce come le prove acquisite in violazione dei divieti stabiliti dalla legge non possano essere utilizzate.

Sembrerebbe, dunque, naturale che nel caso di specie, acclarata la violazione dell’articolo 149 disp. Att. C. p. p. ma anche dell’articolo 111 Costituzione in materia di contraddittorio, una simile prova venga dichiarata inutilizzabile e venga fatta uscire dal processo penale. Invece, ad oggi, il Tribunale si è limitato a riservare di valutarla.

Un simile caso di cronaca non soltanto offre spunti di riflessione meramente tecnici in materia di formazione della prova e utilizzabilità della stessa ma rimette in luce l’annosa questione in ordine al supposto principio di uguaglianza tra le parti dinanzi al procedimento penale.

Gli avvocati penalisti da anni pongono l’attenzione sul rispetto dei principi costituzionali che regolano il processo penale e sull’importanza del ruolo svolto dalla Difesa privata, che dovrebbe rappresentare una parte fondamentale dello stesso processo, al pari della Pubblica Accusa ( sulla scorta di queste valutazioni nell’ultimo periodo è stato chiesto l’inserimento in Costituzione del ruolo dell’avvocato, quale parte necessaria del procedimento penale e come garante del rispetto del principio del contraddittorio tra le parti).

Tuttavia, questo caso rappresenta ancora una volta come, purtroppo, il ruolo dell’avvocato penalista sia ormai il più delle volte quello di un co- protagonista che assiste – disarmato – alle mosse della pubblica accusa e dell’organo giudicante.

E se fosse stato il Difensore della parte privata a munir di foglietto il proprio testimone? Quali conseguenze? Anche quella disciplinare ai sensi del Codice Deontologico Forense, oltre alla pessima figura in aula.

LA SENTENZA DI VENEZIA SCRITTA “IN ANTICIPO”

Il presidente dell’Unione delle Camere Penali, l’avvocato Gian Domenico Caiazza, si è di recente espresso sull’automatismo che si è ormai raggiunto nelle aule giudiziarie, che rende – per l’appunto – il ruolo dell’avvocato penalista pressoché svuotato di ogni contenuto.

Lo spunto è stato, anche in quel caso un’analoga vicenda di cronaca: alcuni giorni prima che l’udienza ad hoc venisse celebrata, alcuni avvocati patroni delle Parti hanno ricevuto dalla Corte di Appello di Venezia le motivazioni delle sentenze con le quali i loro atti di impugnazione erano stati giudicati infondati.

Le sentenze sono, dunque, state decise e scritte prima del processo, ma il dottor Carlo Citterio, presidente della seconda sezione penale della Corte, ha assicurato che se la successiva discussione del difensore e la conseguente Camera di Consiglio lo persuaderanno della infondatezza della tesi già scritta in motivazione, il relatore sarà ben lieto di riscriverla sostenendo l’esatto contrario.

Riscrivere una sentenza? O meglio, una sentenza emessa in assenza del contraddittorio?

Anche in questo caso sono state violate le più basilari norme in tema di equo processo e non si possono che condividere le parole del presidente Caiazza: «La sovranità legislativa è del Parlamento, la Magistratura si limiti a rispettare e ad applicare le leggi, anche quelle che non le piacciono e che non condivide».

Forse è il momento che tutti gli avvocati riacquistino, in attesa delle conferme in Costituzione, con tutta la potenza della categoria ( di una professione tanto necessaria quanto indispensabile), la consapevolezza di essere l’ultimo baluardo della Giustizia.

* Avvocato, direttore dell’Ispeg, Istituto per gli studi politici, economici e giuridici