In Afghanistan la musica è un’eco nella testa delle persone, come disse alla Bbc un chitarrista di Herat in esilio a Londra. Da quando sono tornati al potere nell’agosto del 2021 assieme al cinema, al teatro, alla fotografia e al gioco, i talebani hanno proibito ogni forma di espressione musicale, hanno distrutto milioni di strumenti, di audiocassette, di cd, di televisori, ridotto al silenzio gli artisti e vietato il canto in pubblico.

In ossequio a un passo della Sunna (la seconda fonte della legge islamica) che associa la melodia all’adulterio, al possesso della seta e al consumo di vino, non è tollerato studiare, esibirsi o canticchiare canzoni nella propria automobile. Se vieni sorpreso dalla polizia in mezzo al traffico il più delle volte ti dicono di smetterla, bonariamente, perché il buon senso esiste anche nei regimi fondamentalisti, ma ti ricordano che la musica è haram, interdetta, che distoglie dalla vita spirituale e ti allontana da Dio, un «mezzo di distrazione» per citare un hadith attribuito al profeta Maometto.

I giuristi islamici medievali distinguevano tra ghina’, il canto sensuale e profano, e il dhikr, la recitazione devota. L’ascolto poteva elevare lo spirito — come nei canti sufi, dove la musica è una forma di preghiera estatica — oppure corrompere l’anima, risvegliando desideri proibiti. Mistici come al-Ghazali e Jalal al-Din Rumi vi vedevano un cammino verso la conoscenza, poiché «il suono muove ciò che è nascosto nell’anima». Al contrario i talebani, seguendo la linea più puritana del pensiero deobandi del sucontinente indiano, hanno tracciato la via del divieto: la musica come tentazione, come via verso il caos.

Eppure dai pick up dei talebani che pattugliano le vie di Kabul con gli inseparabili kalashnikov non di rado vibrano le note di bizzarri brani che intrecciano inni di propaganda con le sonorità dell’hip hop e della demoniaca trap occidentale. Di che si tratta?

In teoria dovrebbero essere nashid, canti religiosi privi di strumenti e melodia, affidati alla sola voce o al battito di mani e tamburi leggeri. I nashid esaltano la fede, la patria, il sacrificio, non parlano d’amore né di nostalgia, ma di purezza e di martirio. Durante la prima stagione talebana, cassette di nashid circolavano come inni di battaglia: accompagnavano la guerra contro i sovietici prima, contro gli “infedeli” poi. Oggi, con l’Emirato risorto dalle sue ceneri, sono diventati la colonna sonora del potere. Lo stesso inno nazionale in lingua pashtun Da de batorano kor (Questa è la casa dei coraggiosi) che mescola elementi religiosi e patriottici è un nashid.

Ma i brani che ascoltano i talebani per darsi la carica non sono canti atonali della tradizione ma produzioni moderne che utilizzano tappeti sonori digitali, riverberi sintetici, batterie campionate, delay, riverberi, vodocoder e persino il famigerato auto-tune marchio di fabbrica di qualsiasi cantante trap. È un’eresia tecnologica tollerata perché invisibile: nessuno suona davvero uno strumento, ma il risultato è chiaramente musicale.

Già dieci anni fa, nel brutale Califfato guidato dall’Isis di al Baghdadi, gli strumenti vennero dati alle fiamme ma i miliziani inondavano la rete di video con canzoni di propaganda anche in quel caso le chiamarono nashid, però quei cloni sintetici erano un’altra cosa: si trattava di produzioni rivolte ai jihadisti europei e occidentali per rivendicare gli attentati di Charlie Hebdo o del Bataclan accompagnate da arrangiamenti epici e motivazionali, veri e propri brani con armonie e melodie complesse. Erano realizzate dalla Ajnad Foundation for Media Production, una società nata in quegli anni per modernizzare i canti religiosi in bellicosi inni di propaganda

Ma nelle strade di Raqqa e Mosul fino a quando hanno regnato i dignitari dello Stato islamico erano feroci anche con chi osava solo fischiettare un motivo. Ecco cosa recitava testualmente il divieto che aboliva la musica in tutto il Califfato: «Sappiate che Dio vi accorda la sua misericordia, che gli strumenti a corda e i canti sono proibiti nell’islam perché distolgono dal ricordo di Dio e del Corano, e sono fonte di corruzione per il cuore… Lo Stato islamico in Iraq e nel Levante ha deciso di proibire la vendita di canzoni su disco e di strumenti musicali, così come le canzoni di intrattenimento… in ogni luogo. Chi trasgredirà si esporrà alle sanzioni previste dalla sharia».

Le autorità afghane, con buona dose di ipocrisia, negano di ascoltare musica, pretendono che i loro inni siano tutt’altro e magari molti di loro sono anche in buona fede. Come scrive l’islamologo francese Olivier Roy, ascoltare questi ibridi è un modo per i carnefici di sublimare una violenza che in fondo stanno facendo anche a se stessi: «Tra i talebani e i jihadisti è un’attività fondamentale mettere i nashid a tutto volume quando viaggiano sui pick-up, li condividono in rete con gli amici e ne vanno matti. A volte sembrano attribuire più importanza a quella musica che alle cinque preghiere quotidiane».