Io so che essi, quando mettono le manette a questi imputati, si sentono in fondo al cuore umiliati e addolorati di questo crudo cerimoniale, che pure hanno il dovere di compiere: quando la mattina gli imputati entrano in quest’aula incatenati, come prescrive il regolamento di polizia, non sono essi che provano rammarico e vergogna per quelle catene. Ho visto con i miei occhi che, nonostante quei polsi serrati nelle manette, le loro facce rimangono serene e sorridenti; ma un’ombra di mestizia traspare sui volti di chi li accompagna.

No no, il dissidio non è qui, in questa aula: il dissidio è più lontano e più alto. Sarebbe follia pensare che Danilo abbia potuto indirizzare agli agenti che lo arrestarono, fatti della stessa carne di questi che oggi lo accompagnano, l’epiteto di “assassini”. Danilo non parlava e non parla a loro. Gli assassini ci sono, ma sono fuori di qui, sono altrove: si tratta di crudeltà più inveterate, di tirannie secolari, più radicate e più potenti; e più irraggiungibili.

Di quello che è avvenuto, signori del Tribunale, non si deve dare colpa alla polizia, la quale è soltanto una esecutrice di ordini che vengono dall’alto. In quanto a me, vi dirò anzi che ho sentito dire che io dovrei essere debitore, verso qualcuno degli agenti che hanno deposto in questo processo, di speciali ragioni di gratitudine. Dai resoconti dati dalla stampa su una delle prime udienze, alla quale io non ho potuto partecipare, ho appreso che io dovrei ringraziare quel funzionario di polizia che oggi è commissario a Partinico, il dottore Lo Corte, del trattamento di favore che egli mi avrebbe usato a Firenze, nel periodo in cui egli apparteneva alla polizia della Repubblica di Salò: pare che nella sua deposizione egli abbia detto che mi trattò con speciale riguardo perché, quando venne al mio studio per arrestarmi, arrivò un quarto d’ora dopo che io ero uscito e così lasciò ineseguito il suo mandato. In verità io non mi ricordo di lui: e non so se devo essere grato a lui per essere arrivato un quarto d’ora dopo o a me stesso per essere uscito un quarto d’ora prima. Ma in ogni modo sono anche disposto ad essergli riconoscente: non sono queste vicende personali le cose che contano in questo processo.

Quello che conta è un’altra cosa: conoscere il perché umano e sociale di questo processo, collocarlo nel nostro tempo; vederlo, come tu ben dicevi, o amico Sorgi, storicamente, in questo periodo di vita sociale e in questo paese.

Io ho ammirato, lo ripeto, la misura con cui ha parlato il P. M.; ma su due delle premesse ( oltreché, ben s’intende, su tutte le sue conclusioni) non posso essere d’accordo: e cioè quando egli ha detto che questa è “una comunissima vicenda giudiziaria”, e quando ha detto che per deciderla il Tribunale dovrà tener conto della legge ma non delle “correnti di pensiero” che i testimoni hanno portato in questa aula.

Dico, con tutto rispetto, che queste due affermazioni mi sembrano due grossi errori non soltanto sociali, ma anche specificamente giuridici. Non sono d’accordo sulla prima premessa. Questo non è un processo “comunissimo”: è un processo eccezionale, superlativamente straordinario, assurdo.

Un processo in cui si vorrebbe condannare gente onesta per il delitto di avere osservato la legge, anzi per il delitto di aver preannunciato e proclamato di volere osservare la legge: arrestati e rinviati a giudizio sotto l’imputazione di volontaria osservanza della legge con l’aggravante della premeditazione!

Per renderci conto con distaccata comprensione storica della eccezionalità e assurdità di questo processo, bisogna cercare di immaginare come questa vicenda apparirà, di qui a 50 o a 100 anni, agli occhi di uno studioso di storia giudiziaria al quale possa per avventura venire in mente di ricercare nella polvere degli archivi gli incartamenti di questo processo, per riportare in luce storicamente, liberandolo dalle formule giuridiche, il significato umano e sociale di questa vicenda.

Quali apparirebbero agli occhi dello storico gli atti più significativi di questo processo?

La sua attenzione si fermerebbe prima di tutto su quella ordinanza del giudice istruttore, con la quale, per negare agli arrestati la libertà provvisoria, si è testualmente affermato la “spiccata capacità a delinquere del detto imputato”: il “detto imputato”, per chi non lo sapesse, sarebbe Danilo Dolci.

Suppongo che il magistrato che scrisse questa frase non abbia immaginato, al momento in cui la scrisse, il senso di sgomento che in centinaia di migliaia di italiani questa frase ha suscitato, quando l’hanno letta riferita sui giornali: senso di sgomento per lui, non per Danilo Dolci.

Ma, insomma, questa frase è stata scritta; e tra cinquant’anni lo storico la potrà leggere e potrà dire a se stesso: - Ecco, ho avuto la mano felice: ho trovato un caso interessante, il processo di un gran delinquente, un caso tipico di “spiccata capacità a delinquere”.

Ma che cosa ha fatto mai Danilo Dolci per dimostrare questa sua “spiccata capacità”?

civilista, ha due aspetti: uno giuridico e uno sociale. Sotto l’aspetto giuridico mi pare che essa sia la tendenza e la attitudine a violare il diritto altrui; sotto l’aspetto sociale mi pare sia la incapacità di intendere che la vita in società è fatta di solidarietà e di altruismo: che senza solidarietà e senza altruismo non vi è civiltà. Il delinquente è essenzialmente un infelice esiliato nel suo sfrenato egoismo, un solitario incapace di vivere in società.

Dunque lo storico che si metterà a sfogliare questo processo, quando saranno da lungo tempo caduti e dimenticati quegli articoli della legge di pubblica sicurezza e del codice penale di cui stiamo qui a discutere da una settimana ( quegli articoli che già assomigliano a quei gusci vuoti che rimangono attaccati ai tronchi degli ulivi quando già ne è volato via l’insetto vivo), scorrerà attentamente gli incartamenti per ricercare le prove di questa “spiccata capacità a delinquere” che l’ordinanza istruttoria con tanta durezza preannuncia. E, senza perdersi in sottili acrobazie di dialettica giuridica, si domanderà umanamente: che cosa avevano fatto di male questi imputati? In che modo avevano offeso il diritto altrui; in che senso avevano offeso la solidarietà sociale e mancato al dovere civico di altruismo?

Lo storico arriverà a trovare documentati nel seguito del processo due “misfatti”.

Io mi limito a leggere qualche passo di un solo documento: di un documento che è ancora nelle mie mani e che dà a questa mia difesa il carattere non solo di una testimonianza, ma anche, come ieri vi dicevo, di una complicità.

Quando alla fine dello scorso gennaio Danilo Dolci, dopo essere stato a Torino per consultarsi con i suoi amici sulle azioni che si proponeva di svolgere a Partinico, passò da Firenze nel viaggio di ritorno, venne al mio studio per consigliarsi anche con me come legale ed esser sicuro che quello che stava per fare entrasse perfettamente nei limiti delle leggi. Non mi trovò; e allora mi lasciò una copia del foglietto che in questo momento vi sto leggendo, con questa nota scritta di suo pugno: “Speravo di vederti e di avvisarti. Un saluto con affetto. Tuo Danilo”. Quando tornai dopo due giorni, e lessi il foglietto, il quale conteneva, come ora vi dirò, il programma di quello che stava per succedere a Partinico, trovai che niente di quello che era preannunciato in tale programma poteva in qualsiasi modo andar contro alle leggi o ai regolamenti di polizia: e per questo mi guardai bene dall’avvertire Danilo Dolci, che intanto era ritornato a Partinico, di astenersi dal fare quello che si proponeva. Se in quello che ha fatto c’è qualche cosa di contrario alla legge, sono dunque responsabile anch’io di complicità e forse la mia responsabilità è più grave della sua, perché io dovrei avere quella conoscenza tecnica delle leggi che Danilo non ha.