In Pakistan, una ragazza di appena sedici anni è stata uccisa a colpi di pistola dal padre a Rawalpindi, città satellite di Islamad, perché si rifiutava di cancellare il proprio profilo Tik-Tok. L’uomo, arrestato poche ore dopo il delitto, aveva cercato insieme ad altri familiari di simulare un suicidio, ma la versione non ha retto e l’uomo ha confessato l’assassinio: «Il padre le aveva chiesto più volte di cancellare il profilo, al suo rifiuto l’ha uccisa», ha spiegato un portavoce delle forze dell’ordine. La giovane era molto attiva sui social, pubblicava brevi video di danza alternati a scenette comiche, nulla di “scandaloso”, ma per il padre quel modo di esporsi era indecente e disonorevole, così ha deciso di punirla con la morte, con la complicità dell’intera famiglia.

Il femminicidio di Rawalpindi è solo l’ultimo caso di un’angosciante serie di crimini che colpiscono giovani donne pakistane, punite per la loro presenza sui social network, in particolare su TikTok, molto diffuso nel Paese.

Poche settimane prima, nella provincia del Baluchistan al confine con l’Iran, un uomo ha ammesso di aver organizzato l’omicidio della figlia quattordicenne, colpevole, a suo dire, di aver pubblicato video “osceni”; l’esecuzione è avvenuta in un villaggio dove vige ancora la legge tribale, che assegna all’uomo un potere assoluto sul destino delle donne della famiglia. Queste pratiche sono formalmente vietate dal sistema giudiziario pakistano, ma nelle zone più remote lo Stato centrale fatica ad imporre la sua autorità.

A giugno, a Karachi, la diciassettenne Sana Yousaf, che era una delle influencer giovanissime più note del Pakistan, è stata assassinata nell’appartamento dove viveva con i genitori da un uomo che la perseguitava da tempo. Sana era seguita da oltre un milione di persone tra TikTok, Instagram e YouTube. I suoi contenuti parlavano di caffè, abiti tradizionali, trucchi, viaggi, insomma contenuti del tutto innocui. Intervistato dai media locali padre di Sana, Syed Yousaf, aveva elogiato la figlia definendola «molto più coraggiosa di molòti maschi».

Secondo la Human Rights Commission of Pakistan ( HRCP), nel solo 2023 sono stati registrati almeno 477 delitti d’onore, un numero che, secondo molte ONG locali, è gravemente sottostimato e potrebbe superare il migliaio di casi. In larga parte i responsabili di questi omicidi sono familiari stretti — padri, fratelli, mariti — che agiscono con la complicità o il silenzio della comunità.

Spesso, anche quando le autorità intervengono, le pene vengono ridotte o annullate grazie a una clausola legale che consente ai parenti della vittima di “perdonare” l’assassino, una forma assai distorta di giustizia riparativa, ma anche un meccanismo che vanifica l’effetto deterrente della legge e alimenta l’impunità dei giustizieri di famiglia in nome della morale.

In alcune zone del Paese, come il Baluchistan o il Sindh rurale, la giustizia è ancora amministrata da assemblee tribali — i jirga — che non riconoscono diritti individuali e legittimano punizioni violente contro le donne. Le decisioni vengono spesso prese da anziani del villaggio, secondo codici informali che antepongono l’onore della famiglia alla vita della persona. È in questo contesto che si consumano molti dei femminicidi legati all’uso dei social network e ad altre forme di esposizione sul web. Da notare che gli omicidi quasi mai vengono giustificati nel nome della legge coranica che condanna questo tipo di pratiche, ma da codici preesistenti radicati nella struttura tribale delle comunità. Dietro l’apparente modernizzazione di una parte del Paese — quella delle metropoli, delle università, delle start- up digitali — resiste in Pakistan una cultura patriarcale profondamente radicata, che impone alle donne un ruolo subordinato e silenzioso.

Invece di rafforzare le tutele e le protezioni, le autorità pakistane hanno al contrario più volte preso di mira le piattaforme digitali per non inimicarsi le fasce più tradizionaliste della popolazione. TikTok è stata bloccata almeno quattro volte dal 2020, con l’accusa di promuovere contenuti immorali o contrari ai valori tradizionali.

I bersagli sono spesso video che mostrano donne che ballano, parlano liberamente o esprimono affetto versi amici e amiche, ma anche contenuti legati all’identità di genere o ai diritti LGBTQ+. L’ossessione per la moralità online si traduce, di fatto, in una forma istituzionale di controllo sociale, legittimando l’idea che la visibilità delle donne sia pericolosa e da nascondere, se non da reprimere.