https://www.youtube.com/embed/2q7LQ221Trs Visitare il carcere di Modena significa misurarsi con le macerie di un sistema andato in pezzi. Centro dell’ondata di rivolte che hanno attraversato il Paese lo scorso marzo, per la casa circondariale Sant’Anna il bilancio è drammatico: nove morti senza ancora una risposta. Chi ricorda quel giorno, l’otto marzo a Modena, ha ancora in mente il rumore delle sirene spiegate e una colonna di fumo nero che si addensa in cielo: la voce dei detenuti squarcia il silenzio di una domenica pomeriggio, mentre l’Italia in piena emergenza sanitaria si avvia progressivamente al lockdown. A raccontarcelo è Paola Cigarini, referente del Gruppo Carcere– Città che per anni ha fatto volontariato all’interno della casa circondariale modenese. «Quello che è successo è il segno di qualcosa che non va, e non solo qui a Modena», spiega Cigarini che di quelle immagini dolorose vuole farne un monito per il futuro. «La nostra città non deve dimenticare quella data - continua la volontaria - anche se siamo abituati che il carcere lo sia. Per far sì che nove persone non siano morte invano si tratta di ricordare che nell’Istituto c’era un sovraffollamento di più di 200 persone, un numero di educatori insufficiente e tempi lunghissimi per le risposte da parte della magistratura di sorveglianza». Il carcere di Modena, numeri alla mano, ha una capienza di 340 persone. Al momento delle rivolte, esplose a catena negli istituti del Paese da Salerno a Milano, Sant’Anna ne ospitava 560: molti dei quali detenuti definitivi, pur essendo quella di Modena una casa circondariale. Dopo la distruzione di buona parte della struttura che ha reso inagibile intere sezioni restano a Modena meno di cento detenuti, per lo più condannati per reati che non prevedono l’accesso a misure alternative. Quasi tutti gli altri sono stati trasferiti nella notte in istituti dislocati in tutto il territorio nazionale, tra questi quattro dei detenuti morti in seguito alla rivolta: tutti visitati presso il presidio sanitario allestito nel piazzale del carcere, come ha assicurato la direttrice, hanno dovuto affrontare in alcuni casi diverse ore di viaggio. Anche cinque ore per un detenuto di quarant’anni morto al carcere di Ascoli Piceno. Un’ora fino a Parma invece nel caso di un giovane moldavo morto sul posto dopo essere stato portato in rianimazione. Cinque i corpi senza vita ritrovati all’interno di Sant’Anna. Per tutti i nove decessi l’autopsia avrebbe confermato la morte per overdose: un’intossicazione da farmaci, probabilmente metadone razziato dall’infermeria del carcere durante gli scontri. Sui fatti di quel pomeriggio sono ancora aperte le indagini, che dovranno chiarire l’opportunità di trasferire coloro che manifestavano già condizioni critiche di salute. E ricostruire la catena di responsabilità nella gestione dell'emergenza. Proprio di responsabilità parla Cigarini: «Bisogna che tutte le figure che hanno a che fare con la pena se ne assumano una parte. Tutti dovrebbero chiedersi che cosa hanno fatto rispetto al proprio ruolo. Che cosa non è stato fatto perché questa rabbia si contenesse? Che cosa non ha funzionato? Non si può attribuire quella rivolta esclusivamente al Covid. Non si può dare questa unica risposta a quello che è successo». Per chi il carcere lo conosce e lo vive da anni come volontario la preoccupazione più grande è che la ricostruzione, già avviata con i lavori interni che dovrebbero concludersi a settembre, non sia un’occasione per rivedere e migliorare il trattamento carcerario ma un momento di regressione al passato. «Quello che è accaduto a Modena è anche il fallimento del nostro lavoro di pacificazione. Ma che questo fallimento sia una denuncia», confessa ancora Cigarini cercando di spiegare le ragioni che hanno prodotto una rabbia così potente tra i detenuti. A causa dell’emergenza sanitaria i volontari non hanno avuto accesso alla struttura già dal 24 febbraio, così che venisse a mancare quell’ultimo canale comunicativo necessario a contenere il malcontento e la paura del contagio. Molte persone ristrette a Modena sono straniere, hanno problemi di tossicodipendenza, di disagio psichico o malattie croniche. Molti sono anziani o senza fissa dimora. Un concentrato di problemi impossibile da contenere: alla percezione di marginalità e isolamento che già normalmente vivono i detenuti si è aggiunta la mancanza di informazioni dall’esterno e la totale mancanza di affettività con i familiari. «La giustizia ha bisogno di verità e la verità ha bisogno di cose», conclude Cigarini che chiede ancora risposte su quelle morti quasi dimenticate. «Dobbiamo spiegare che nove persone sono morte infrangendo il proprio sogno, senza altra risposta che non l’assunzione di una sostanza: il sogno di arrivare in Italia per cambiare vita è diventato lo stare ai dettati della nostra società moderna diventando l’ultimo anello della catena e pagando con il carcere e con la morte. C’è bisogno di una nuova idea di trattamento, oggi la pena è solo privazione della libertà».   *servizio video di Lorem Ipsum