Bingo. La si può girare come si vuole ma la liberazione di Patrick Zaki, la grazia concessa 24 ore dopo il trauma della nuova condanna è una vittoria netta di Giorgia Meloni, uno di quegli episodi forse minori sulla scacchiera della grande politica internazionale però inestimabili in termini d'immagine e probabilmente di consenso. Il ministro Tajani smentisce che ci siano stati «baratti o trattative sottobanco», alludendo all'ipotesi, molto accreditata, che il prezzo per la libertà di Zaki sia la chiusura della querelle sulla barbara e impunita uccisione di Giulio Regeni. «Continueremo a chiedere che si faccia luce sulla vicenda come abbiamo sempre fatto», promette il ministro e forse sarà anche vero ma è certo che alla richiesta non verrà data alcuna risposta e l'Italia farà finta di niente.

È più o meno impossibile credere alla versione del ministro degli Esteri che del resto attribuisce il brillante risultato «al ruolo determinante delle nostre diplomazia e intelligence». È evidente che la diplomazia non si possa essere limitata a insistere per la grazia senza dare nulla in cambio e non è affatto detto che lo scambio sia stato fatto solo sulla testa della famiglia di Giulio Regeni: di carne al fuoco ce ne sarebbe comunque moltissima a partire dall'immigrazione. In ogni caso, era già evidente che ottenere la punizione di chi torturò e uccise Regeni sarebbe stato impossibile e anche che la realpolitik non si sarebbe arrestata di fronte a quella complicità di al- Sisi con gli assassini.

Sarà al contrario meglio abituarcisi: la politica impostata dal governo in Africa rende inevitabile il sostegno a dittatori e signori della guerra. È così in Tunisia, con la quale l'Europa ha firmato il memorandum soprassedendo su quelle gravissime violazioni dei diritti umani già denunciati ad altissima voce. È così in Libia, dove Italia ed Europa continuano a finanziare la stessa guardia costiera che si macchia di delitti orrendi. E sarà così con al- Sisi l'egiziano. Stavolta, almeno, la trattativa ha messo fine al calvario del giovane Patrick Zaki.

Nelle intenzioni di Giorgia Meloni questo risultato non è però solo un successo da spendere sul mercato interno del consenso. La presidente punta a ricoprire un ruolo centralissimo su uno dei fronti più incandescenti nel mondo: quello dell'Africa. Non è solo questione di immigrazione. Quello è un nodo certamente non secondario per l'Europa ma la posta in gioco è molto più alta: l'Africa è forse il continente nel quale si gioca di più la partita tra occidente e Cina. Meloni, con le spalle coperte dalle prove di fedeltà atlantista a prova di bomba offerte negli ultimi due anni, si candida al ruolo di regista nel recupero del terreno perso dall'occidente in Africa in anni di ottuso immobilismo.

Un segnale come la grazie a Zaki ha il suo peso nell'accreditare Giorgia Meloni come leader in grado di svolgere quel delicatissimo ruolo e non bisogna dimenticare che è il secondo successo nel giro di meno di una settimana, perché con tutti i suoi limiti e la sua parzialità anche il memorandum Europa- Tunisia è stato un successo personale del capo del governo italiano.

Un passaggio importante sarà senza dubbio il viaggio a Washington della settimana prossima. Se tornerà avendo dimostrato di essere in grado di mediare con il Fmi, dunque con la Casa Bianca, la premier avrà le credenziali necessarie per cercare di imporsi come artefice della politica europea in Africa sia agli occhi dei governi africani che di Bruxelles e delle capitali europee. È questo che intende Marco Minniti, ex ministro degli Interni e uomo del Pd, quando dice che nel quadro attuale la premier italiana «può e deve» diventare la nuova Merkel.

Se c'è un versante del quadro politico nel quale l'opposizione appare completamente spiazzata dall'offensiva di Giorgia Meloni è proprio la politica estera, per certi versi proprio quello sul quale la premier è più attiva. Non è un ritardo inspiegabile: appena due anni fa una scommessa del genere sarebbe stata impensabile per qualsiasi leader italiano, di destra o di sinistra, a eccezione forse del tecnico europeo Draghi. Ma la guerra in Ucraina ha cambiato tutto e il suo sviluppo in quella che è di fatto già una nuova guerra fredda lo modifica ancor più radicalmente. Se non altro bisogna dire che nessuno ha saputo cogliere e sfruttare il nuovo quadro mondiale prima e meglio di Giorgia Meloni.