Quella del governo sul Pos è stata una resa in piena regola. La misura in sé, al di là degli strepiti d'ordinanza, aveva impatto limitato e ancor meno sarebbe risultata incisiva se il tetto al di sotto del quale era lecito pagare in contanti fosse tornata, come nella versione originaria della manovra, a 30 euro invece che a 60. Il braccio di ferro con Bruxelles è stato simbolico e proprio per questo la Commissione non si è accontentata del dimezzamento. Al governo Meloni, in realtà apprezzato per la sua scelta rigorista ma sospetto di non voler imboccare davvero la via indicata da Bruxelles in materia di lotta all'evasione e al riciclaggio, in sostanza sulla tracciabilità delle transazioni, si chiedeva la classica prova di fedeltà. Un atto di sottomissione.

La premier si è arresa e probabilmente non avrebbe potuto fare altro, avendo l'Italia in questo momento massimo bisogno di una disposizione positiva e benevola della Ue. I veri guai con il Pnrr sono prevedibili per l'anno prossimo, quando si tratterà di passare all'implementazione materiale dei progetti, molto più di quanto non fossero (e in parte ancora siano) temibili quest'anno. Senza un accordo con la Commissione sulla rimodulazione del Piano, stilato prima che crisi energetica, inflazione e guerra cambiassero i conti in tavola, farcela sarà impossibile. Nel giro di pochi mesi, poi, sarà necessario trovare nuovi fondi per fronteggiare l'impatto della crisi sulla popolazione e sulle aziende: lo spettro di uno scostamento di bilancio massiccio rispunterà inevitabilmente. Rovinarsi i rapporti con la Ue per 30 euro di tetto sul pagamento Pos in più o in meno sarebbe stato folle.

Resta però il fatto che sull'unico punto concreto in cui ci fosse un contenzioso con l'Europa, la ex sovranista Giorgia Meloni ha ingranato una rapidissima e significativa retromarcia. Tanto più significativa in quanto la manovra era già quasi interamente modellata secondo gli imperativi di Bruxelles. Che il governo dovesse comunque impegnarsi in una trattativa era evidente sin dall'inizio e conclamato. In questo caso però più che di una trattativa si è trattato di un ordine e la linea adottata dal governo è stata non diversa ma opposta a quanto promesso nei 10 anni di vita del partito che lo guida, FdI.

La distanza tra le promesse elettorali e le realizzazioni dagli spalti del governo, quando ci si arriva, è antica quanto la politica e non è affatto vero che si limiti alle forze “populiste”, anche se è ovvio che queste ultime, promettendo una rottura tanto radicale quanto salvifica, presentano poi un saldo in rosso più marcato. È dunque inevitabile, almeno a prima vista, non scorgere grandi differenze tra la sterzata di Giorgia e quelle dei 5S e della Lega negli anni scorsi. Le somiglianze sono innegabili ma ci sono anche alcune sostanziali differenze.

La prima è che Lega e 5S cercavano almeno di segnare e difendere il punto della bandiera, anche a costo di affrontare qualche tensione con Bruxelles. La seconda è che tentavano di controbilanciare le sostanziali marce indietro con dichiarazioni stentoree e a volte truculente in netto contrasto con l'acquiescenza nei fatti. Giorgia si muove in direzione opposta. Sfrutta la circostanza per accelerare la trasformazione radicale del suo partito da forza populista ancora permeata dalle istanze di quella destra sociale che esisteva sia nel vecchio Msi che nella An di Fini a “Partito conservatore europeo”, una forza politica che guarda ancora a Giorgio Almirante, che resta l'inconfessato nume tutelare della premier, ma coniugandolo con Margaret Thatcher: un partito d'ordine e liberista, di quelli che ritengono tanto necessario il non lasciar fare nella società quanto il lasciar fare in economia.

Per i 5S e per Salvini l'imperiosità europea era una gabbia. Per Giorgia Meloni lo è solo in parte, e per l'altra parte è invece una via da battere per rendere il suo partito una presenza stabile in Italia e in Europa e per fondare una nuova destra d'ordine in Europa.