Ufficialmente la partecipazione "non era prevista" ma la verità è opposta. Ursula ci ha ripensato all'ultimo momento perché il braccio italiano del Ppe preferiva non ostentarla troppo, considerandola impopolare e perché lei stessa ha capito di avere di fronte un partito almeno in buona parte ostile alla sua candidatura.

Licia Ronzulli lo aveva detto chiaramente alla viglia, «è un cavallo azzoppato». Segno più chiaro di quanto gli ostacoli alla sua riconferma siano tutti interni al Ppe non poteva esserci. Tra i leader ha incontrato solo Antonio Tajani: altri contatti con leader italiani non del Ppe, cioè con l’amica e alleata Giorgia Meloni, sono evidentemente impossibili. È probabile che tra un sorriso e l’altro i due esponenti del Ppe si siano studiati con una certa circospezione.

Se la candidatura von der Leyen dovesse naufragare, ipotesi possibile, il primo nella lista per la presidenza della Commissione sarebbe proprio l’italiano. È ministro e vicepremier di uno dei Paesi principali e fondatori dell’Unione, a differenza della seconda in lista ufficiale, Roberta Metsola che viene da un Paese minore e la cosa ha un peso rilevante.

Inoltre Tajani è stato presidente del Parlamento europeo, a Bruxelles e Strasburgo si muove come un pesce nell’acqua e il governo di Roma, il cui peso sarà fondamentale e forse determinante, non potrebbe certo dire di no a un presidente italiano.

Certo, il Pse storcerebbe il naso ma il quadro che si profila per dopo le europee minaccia di provocare all’establishment socialista ben altre coliche, sempre che i risultati siano davvero più o meno quelli previsti. Il problema è che l’Europa è pronta, prontissima per virare a destra. Se il responso degli elettori non capovolgerà il quadro, ma è una eventualità a cui non crede nessuno, il Ppe si sposterà vigorosamente da quella parte. L’eventualità era chiara già da mesi. A questo lavorano alacremente Manfred Weber, von der Leyen e Metsola. Le resistenze c’erano ma stanno candendo una dopo l’altra senza neppure attendere il voto. Se per domani l’Olanda non avrà un governo si tornerà al voto.

Il leader del partito di destra radicale Vvd, Gert Wilders, vincitore nelle ultime elezioni politiche ma senza maggioranza parlamentare, ha gettato la spugna in marzo rinunciando a fare il premier. In campo però ci sono altri esponenti del suo partito e i liberali sarebbero orientati ad appoggiarli in extremis. Temono che, tornando al voto, Wilders conquisti la maggioranza assoluta da solo. Il leader della Csu, il partito cattolico che da sempre è collegato alla Cdu, Markus Soeder, un anno fa era tra i più rigidi nell’escludere ogni possibilità di apertura a “qualcuno con un background postfascista” come Giorgia Meloni. Alla fine della settimana scorsa era a Roma per incontrare la premier già “infrequentabile” e all’uscita è stato prodigo di riconoscimenti. Il segno dei tempi.

In Germania il leader socialista Schmit, commissario europeo, prova a costruire barricate. Con i Verdi e i Liberali firma una dichiarazione programmatica: mai con la destra. La maggioranza Ursula deve restare quella che è. Sempre che l’aritmetica e la politica lo consentano. Per puntare i piedi bisogna che dalle urne escano gruppi parlamentari tali da poter escludere l’appoggio se non di tutti i Conservatori del gruppo Ecr, almeno della folta pattuglia italiana. Non sarebbe la prima volta. Anche Ursula von der Leyen fu eletta solo grazie al voto a sorpresa del M5S italiano. La politica però non è solo questione di pallottoliere e voti. A fronte di una eventuale avanzata travolgente della destra in tutta Europa, se anche fosse possibile ricostruire la maggioranza Ursula con un pugnetto di voti i leader centristi, a partire da quelli del partito che è e sarà di maggioranza relativa, il Ppe, non potranno fare a meno di chiedersi se sia una mossa saggia spingere verso la destra radicale del gruppo Identità e Democrazia, quello di Le Pen, Salvini e AfD, una leader che, come capo del terzo governo dell’Unione per importanza è oggi, piaccia o non piaccia, centrale nella politica europea.

La carta Tajani non risolverebbe i mal di pancia del Pse: sempre con la destra italiana dovrebbero allearsi e anzi la scelta del vicepremier della stessa Meloni renderebbe il quadro anche più doloroso. Senza i numeri per tenere Meloni fuori dalla porta, o senza un’intesa tra Francia e Germania tale da escluderla, la sola via d’uscita darebbe proprio “all'italiana”, un governo europeo tecnico con quasi tutti dentro e a quel punto a presiederlo sarebbe quasi certamente un italiano, Mario Draghi. Per la premier italiana ciascuna di queste tre soluzioni andrebbe bene. Di mezzo però la verifica dei consensi reali, insomma le elezioni. E se la leader di FdI punta tanto su quella sfida è proprio per questo: il sondaggione di politica interna ha certamente il suo peso. La partita reale che si gioca nella composizione del Parlamento europeo ne ha molto di più.