«Adesso identificateci tutte e tutti»: l'opposizione, con il Pd in prima fila, protesta contro l'iniziativa della questura di Milano che ha identificato il “loggionista” autore del grido “Viva l'Italia antifascista” durante la Prima della Scala. «Continueremo a gridarlo, ovunque. Anche se non piace a Salvini», scrive il Partito democratico su X, in un post poi condiviso anche dalla segretaria dem, Elly Schlein.

Si chiude il sipario (tredici minuti di applausi) ma rimane la polemica politica il giorno dopo il debutto del Don Carlo. Una polemica ridimensionata dal centrodestra sebbene con sfumature diverse - dal “non ho sentito nulla” di La Russa al “se uno viene a sbraitare alla Scala ha un problema” di Salvini - e allo stesso tempo rilanciata a piena voce dal centrosinistra. Tanto da chiedere al ministro dell'Interno di chiarire in Parlamento. 

Ad ogni modo, Marco Vizzardelli e un altro spettatore - precisa la Questura di Milano - non sono stati identificati «per il contenuto della frase» ma «per garantire la sicurezza della rappresentazione». A spiegare l’accaduto è il loggionista in persona. «I poliziotti che mi hanno identificato sono scoppiati a ridere e mi hanno detto “la pensiamo come lei” quando ho fatto notare che sarebbe stato un reato dire “w l'Italia fascista”, non quello che ho detto io», spiega Vizzardelli, giornalista esperto di equitazione e di opera lirica. Che ora è il nome più popolare sui social per avere pronunciato, «non urlato, il mio tono di voce era normale», la frase dal loggione subito dopo l’esecuzione dell’inno nazionale.

Raggiunto telefonicamente dall’agenzia Agi, intervalla il suo racconto con battute e risate: «Ora ho in casa la televisione che mi vuole intervistare, è sbalorditivo, no? Questo per avere detto una frase in linea con la Costituzione. Rifarei tutto, non sono affatto pentito». Racconta la genesi “tormentata” del gesto: «Da giorni ero infastidito che che si fosse messa di mezzo la Segre, direi che ho provato un disagio umano per la presenza inquietante di un presidente del Senato che ha il busto di Mussolini in casa. Mentre facevo la lunga coda per entrare nel loggione, discutevo con degli amici che avevano le mie stesse sensazioni. Molti dicevano “Facciamo qualcosa” e proprio io li ho messi in guardia avvertendo di stare attenti a non fare cose che avrebbero potuto coinvolgere la senatrice a vita. Nel frattempo meditavo e rimeditavo sul da farsi».

La scintilla «è scattata dopo che è partito l'inno nazionale, che peraltro non è obbligatorio per il Presidente del Senato, lo si suona per il Presidente della Repubblica e già questo ha fatto salire la mia inquietudine. Un altro loggionista ha urlato “No al fascismo” ma non sono stato condizionato da lui per quello che ho fatto dopo. Ero calmissimo, ho sentito scattarmi qualcosa e ho detto con voce normale, come quella che sto usando ora al telefono, “w l'Italia antifascista”. Poi è arrivato tutto il resto».

«Tutto il resto» è la sua identificazione da parte della Digos. «Durante il primo atto, sono stato avvicinato da un agente in borghese, l'ho sgamato subito. Era buio, mi sono girato e sono trasalito un attimo. Lui mi ha detto di stare tranquillo che non c'era niente di grave. Finito il primo atto, mi ha chiesto le generalità tirando fuori il distintivo. Io ho detto: “Scusi, ma perché?” E me ne sono andato. Nell'intervallo sono arrivati quattro agenti: “Siamo della Digos e vorremmo le sue generalità. Se dovesse rifiutarsi, sarebbe un reato”. Ho chiesto: “Ma scusate, che reato è? Se avessi detto 'w l'Italia fascista' mi avreste preso e portato fuori, ma così?”. A quel punto loro sono scoppiati a ridere, ridevamo insieme e mi hanno detto che la pensavano come me”».