È proprio vero che tanto va la gatta al lardo che ci rimette lo zampino. Il Fatto Quotidiano di Marco Travaglio ce lo ha rimesso più volte in questi ultimi giorni. Il giornale fondato dal buon Antonio Padellaro ha cominciato sabato scorso preannunciando o augurandosi su tutta la prima pagina “una retata” che “seppellirà” finalmente tutti quelli che non meritano il suo rispetto. E ha commentato così, con un “catenaccio”, come si chiama in gergo tecnico un vistoso sottotitolo, gli sviluppi contemporanei di importanti indagini giudiziarie a Milano e a Roma: «Dopo il referendum salta il tappo delle inchieste sulla politica». A Milano si era autosospeso il sindaco Beppe Sala perché indagato per un appalto dell’Expo, su imput della Procura Generale dopo che la Procura non generale aveva ritenuto di poter archiviare il caso. A Roma invece erano stati arrestati Raffaele Marra, capo del personale del Comune e uomo sino ad allora di fiducia della sindaca grillina Virginia Raggi, e il costruttore Sergio Scarpellini, legato allo stesso Marra da affari che gli hanno procurato l’accusa di corruzione. Poiché Sala si era autosospeso da uomo fortunatamente libero e gli arresti avevano riguardato invece persone e cose del Campidoglio e dintorni, non si riesce a capire perché mai si potesse parlare insieme di retata e di tappo saltato dopo il referendum alle inchieste sulla politica. Riguardando a Roma solo Marra e il suo presunto corruttore Scarpellini, sia pure per fatti sino ad ora risalenti a prima che la Raggi diventasse sindaca, il tappo saltato dalle indagini più gravi e clamorose dopo il referendum doveva essere servito solo a tutelare, prima della prova referendaria, i grillini e la loro causa del no alla riforma costituzionale. Sennò che razza di tappo referendario poteva essere stato? E’ quanto meno curioso che si sia doluto di questo tappo saltato troppo tardi, e che potremmo chiamare ad orologeria, come certa giustizia lamentata ai suoi danni spesso e volentieri da Silvio Berlusconi, un giornale schieratissimo sul fronte referendario del no col Movimento 5 Stelle. Non chiamiamolo, per carità, partito perché si offenderebbero. Ad occhio e croce, i danni d’immagine che avrebbe potuto subire, a torto o a ragione, il movimento grillino se quel tappo fosse saltato prima del referendum, si sarebbero riversati in modo forse decisivo sulla causa del no alla riforma di Renzi. Il quale perciò avrebbe tutto il diritto adesso di gridare lui, non Il Fatto Quotidiano, contro il silenziatore imposto alle indagini. I tappi vanno maneggiati con cura, anche sul piano dialettico. Ma poi, è curioso sospettare che si sia fatta mettere il tappo in bocca quella stessa Procura di Roma esaltatissima dal Fatto Quotidiano per l’offensiva contro la cosiddetta Mafia Capitale, peraltro ridimensionata non poco dai processi che sono derivati dall’accusa. Alle curiosità del sabato sono seguite quelle di domenica, quando la gatta di Travaglio ha lasciato lo zampino nella trappola della prima pagina con un nuovo collegamento un po’ troppo acrobatico fra le vicende giudiziarie pur così diverse di Milano e di Roma. Ecco il titolo, a caratteri di scatola: “La Raggi cotta e mangiata. Sala indagato e santificato”. Nel “Sala indagato e santificato” c’è tutto il sapore giustizialista del rammarico per l’indagato che continua a godere di troppa stima, accusato peraltro di essersi autosospeso un po’ per “manfrina”, secondo Travaglio, e un po’ – come gli ha rimproverato persino, e a sorpresa, un garantista a 24 carati come consideravo Stefano Parisi - per esercitare una indebita pressione sulla magistratura inquirente. Perché mai il sindaco di Milano avrebbe fatto la manfrina e addirittura intimidito la Procura di Milano? Non capisco perché mai Sala avrebbe dovuto subire in silenzio, come se nulla fosse, e magari poi anche essere sculacciato per questo dai soliti giustizialisti, l’indagine riaperta su di lui per una vicenda che, se non ho capito male, non è stata considerata grave neppure dal presidente dell’Autorità anti-corruzione, il magistrato Raffaele Cantone. E anche se l’autosospensione del sindaco dovesse tradursi in un’accelerazione dell’inchiesta per risparmiare danni al Comune ambrosiano, non capisco che male ci sarebbe. Purtroppo i tempi della giustizia in Italia sono ormai così ordinariamente lunghi che bisognerebbe non scoraggiare ma incoraggiare ogni iniziativa utile ad accelerarli. Ma veniamo alla Raggi e, poverina, al “cotta e mangiata” in cui sarebbe immeritatamente incorsa, a leggere il titolo e il tono del Fatto Quotidiano. Si può comprendere la delusione, oltre alla sorpresa, che ha procurato a Travaglio, oltre che alla sindaca, la rivisitazione giudiziaria, chiamiamola così, dell’arrestato Raffaele Marra. Sulle cui qualità il direttore del Fatto aveva condiviso il giudizio della sindaca grillina sino a preoccuparsi, come lui stesso onestamente ha riconosciuto e raccontato ai lettori, di esaminarne personalmente curriculum e altre carte, ricevendolo in redazione e dandogli sul suo giornale tutto lo spazio possibile. Lo ha fatto peraltro con una premura, una precisione e un apprezzamento degli interessati di cui si trovano tracce in alcune intercettazioni circolate nei giornali e nei soliti, fastidiosi siti web. Addirittura, sempre via elettronica, sono venute fuori notizie, non so francamente sino a che punto fondate, di incontri fra lo stesso direttore del Fatto o un suo omonimo – Marco - con un monsignore referente dell’ex persona di fiducia della Raggi, prima di diventare, una volta in carcere, solo uno dei 23 mila e rotti dipendenti del Comune di Roma. Piuttosto, più che Travaglio, e per ben altri motivi, dovrebbero essere gli elettori a dolersi del “cotta e mangiata” della sindaca, che in realtà è stata metaforicamente spennata, cucinata e divorata nella cucina dei grillini. Già, perché sono stati questi ultimi, e non i magistrati di qualche Procura, o i sequestratori di chissà qualche organizzazione terroristica, a “processarla”. E a condannarla, con una sentenza volontariamente e immediatamente eseguita dall’interessata, a liberarsi del vice sindaco, pure lui grillino, Daniele Frongia e del capo della segreteria personale Salvatore Romeo. Che hanno cercato di soccorrerla nell’incidente di cucina dimettendosi. Tutti i giornali hanno potuto titolare sulla Raggi “commissariata” dal suo partito, o movimento, pardon. Parecchi lo hanno fatto senza neppure usare la prudenza delle virgolette: commissariata, e basta. Sarò ingenuo, ma a me questa storia della Raggi commissariata né mi convince né mi piace. Per prima cosa non si sa per ordine in particolare di chi sia avvenuto questo presunto commissariamento, perché – almeno a leggere Il Messaggero, ma un po’ anche la Repubblica - pare che su questo sia stato messo “in minoranza” da Davide Casaleggio, figlio del compianto cofondatore Gianroberto, addirittura l’uomo che più immagine non si può del movimento: Beppe Grillo, smanioso di una misura ancora più severa. E poi, c’è una legge che assegna il potere di commissariamento di un sindaco, e del relativo Comune, al governo su proposta del prefetto, e addirittura con la partecipazione del capo dello Stato alla firma di alcuni atti della procedura. Qui è andato tutto a farsi fottere – scusate il termine - e si può tranquillamente apprendere e scrivere di un commissariamento di sindaco disposto dal suo partito. Su questo, senza voler fare il giustizialista pestandomi i piedi, mi chiedo perché non hanno avuto e non hanno nulla da dire le cosiddette Autorità – con la maiuscola, vi raccomando - di vigilanza. Né i democristiani né i comunisti nella tanto bistrattata prima Repubblica si sarebbero mai permessi di commissariare un loro sindaco, neppure con le virgolette. E di sindaci ne avevano moltissimi, generalmente più preparati di quelli sfornati ora dai grillini. Che a Torino non stanno avendo incidenti, credo, più per merito della città, abituata di suo a far bene le cose, che della pur assennata sindaca a 5 stelle Chiara Appendino. A Parma si sa che fine ha fatto un sindaco come Federico Pizzarotti, appezzato dalla popolazione e uscito indenne da un’inchiesta che aveva fatto saltare la mosca al naso a Grillo e Casaleggio: ha dovuto lasciare il movimento. La Dc e il Pci, diciamo la verità, al netto di tutti gli incidenti che possono avere avuto, selezionavano un po’ meglio dei grillini la loro classe dirigente e i candidati. Del Pci, che pure non ho mai votato, vorrei segnalare alla Raggi, se dovesse avere l’avventura di leggerci, un caso di cui ebbi la fortuna di avere una conoscenza quasi diretta. Era il 1984. La presidente della Camera Nilde Iotti in una riunione di partito, neppure paragonabile a quelle che Grillo fa nell’albergo romano dove si gode lo spettacolo dei Fori quando vi alloggia, si sentì riprendere dal segretario Enrico Berlinguer per essersi opposta ad alcuni tentativi ostruzionistici dei deputati del Pci durante l’esame della legge di conversione di un decreto. Era quello con cui il governo di Bettino Craxi aveva sforbiciato la scala mobile dei salari per ridurre l’inflazione. La Iotti - grandissima signora, vi assicuro - gelò il segretario – e che segretario- con un’occhiata. E, non contenta, gli rispose a tono, rivendicando il suo ruolo istituzionale e il rispetto che a quel ruolo dovevano anche i compagni e dirigenti di partito. Forse esagero a fare o solo accennare un paragone fra la Raggi e la mitica Iotti. Ma trovo grave che in questo paese, con o senza virgolette, si possa commissariare un sindaco da parte di un partito, o di qualcosa che gli assomiglia. Si protestò anche da parte dei grillini contro le procedure adottate dal Pd per la decadenza di Ignazio Marino da sindaco e si tace adesso sulle procedure di Grillo, o di Casaleggio e amici, nei riguardi della loro Raggi. Consentitemi allora di dare dei “golpisti”, con le virgolette per carità, ai signori commissari della sindaca della Capitale. Alla quale, nonostante tutto, ma proprio tutto, verrebbe voglia di esprimere un po’ di solidarietà.