Elly Schlein ha preso una posizione chiara sull'eliminazione del caveat che vieta all'Ucraina di adoperare armi italiane per colpire le rampe di lancio dei missili vicine al confine ma su territorio russo. Come la rivale diretta Giorgia Meloni. È lecito sospettare che su entrambe pesino considerazioni elettorali. Il caso della leader del Pd, però, è parzialmente diverso da quello della premier. Tre giorni fa a Sofia l'Assemblea parlamentare Nato, che non è organo istituzionale dell'Alleanza ma è una sorta di istituzione parallela con funzioni di raccordo, ha votato sull'emendamento canadese che proponeva appunto di «slegare le mani» a Kiev permettendo di colpire le basi in Russia da cui partono i missili. La delegazione di FdI era assente. Quella del Pd ha votato a favore dell'emendamento, il cui contenuto era esattamente quello a cui si dice contraria la segretaria. Insomma, il parere di Elly Schlein è chiaro e netto: però è un parere personale che in tutta evidenza non impegna il partito.

Era già successo con il referendum Cgil contro il Jobs Act, in quel caso con modalità del tutto esplicite. Schlein lo ha firmato ma come Elly, non come segretaria del Pd. A titolo personale. Un po' come a titolo personale Marco Tarquinio, ex direttore di Avvenire e candidato nelle liste del Pd, suggerisce di sciogliere l'Alleanza atlantica. Ma Tarquinio è effettivamente un ospite: Schlein è la leader. Ma se il morbo è diffuso, nulla lo fa emergere più della guerra. Per il popolo di sinistra quello non è un capitolo come tanti: rappresenta colonne d'Ercole difficilmente valicabili e una componente robusta del partito, incluso tutto il drappello di testa che lo guida con Schlein e che come lei proviene in buona parte dall'esterno del partito, sarebbe in cuor proprio più propenso a sospendere l'invio delle armi piuttosto che ad aumentarne la gittata di tiro consentita. In compenso l'ex segretario Enrico Letta aveva assunto, con Meloni, la posizione più intransigente e radicalmente atlantista sulla guerra. Anche in questo caso buona parte del Pd si riconosce ancora in quella posizione. L'afasia della segretaria, che sulla guerra, cioè sulla questione più decisiva e dirimente che ci sia oggi, dice il meno possibile deriva da questo.

Incidentalmente la faccenda potrebbe complicarsi ulteriormente nei prossimi mesi. I giochi per i posti chiave in Europa devono ancora cominciare ma tra i nomi in ballo per la presidenza del Consiglio europeo, il vero organo decisionale dell'Unione, c'è quello di Enrico Letta, che segretario non lo è più ma intransigente sulla guerra invece lo è ancora. Una segretaria che vorrebbe, ma non può, diventare colomba, si troverebbe in questo caso a dover sostenere un presidente del Consiglio europeo del suo partito ma su posizioni che con il bianco volatile della pace c'azzeccano poco. Elly resterà colomba: a titolo personale.

Il male oscuro ha radici antiche quanto il partito stesso. Elly Schlein non è la prima, e neppure la seconda o la terza, a doverci fare i conti. Il Pd era nato come partito- contenitore, ispirato in parte all'omonimo partito americano, e in parte all'Ulivo, al cui interno c'era se non proprio di tutto almeno quasi di tutto. Ma allo stesso tempo mirava a rottamare proprio la caratteristica che aveva permesso la nascita e la vittoria elettorale dell'Ulivo: la pluralità dei soggetti al proprio interno.

Nel partito-contenitore, l'obiettivo era invece amalgamare sino a renderle indistinguibili e quell'amalgama a venire sarebbe stato l'identità politica di cui il Pd, al momento della nascita, difettava. Il problemino era ed è che l'Italia non era allora un Paese bipartitista e il tentativo di imporre dall'alto un sistema bipartitico con la messa in campo del “partito a vocazione maggioritaria” non solo non ha realizzato quel miraggio ma ha smantellato anche il bipolarismo precedente. Fallita la missione del partito contenitore all'americana, possibile solo in un sistema già bipartitista, è andato a vuoto anche il sogno di un'identità politica definita, forgiata nel crogiolo delle diverse sensibilità interne. Il Pd è rimasto un partito senza altra identità se non la vocazione governativa, al centro e negli enti locali. I diversi segretari hanno imposto, incontrando puntualmente resistenze strenue le loro differenti e anche molto differenti visioni, che sono puntualmente sopravvissute al leader di turno stratificandosi in diverse identità politiche accostate ma non sommate. Il Pd di Elly non può prendere una vera posizione sulla guerra perché ha al suo interno l'eredità di Letta. Non può prendere una posizione sul referendum contro il Jobs Act, se non quella “a livello personale” della leader perché puntano i piedi gli eredi dell'età di Renzi.

Non può neppure sfidare l'autonomia differenziata leghista minacciando apertamente il referendum abrogativo, perché quell'autonomia è figlia legittima della riforma costituzionale imposta quasi 24 anni fa dai partiti poi confluiti nel Pd. Elly Schlein, l'outiseder eletta a sorpresa segretaria, si trova così alle prese con il rebus che tutti i segretari del Pd hanno provato invano a risolvere: fare di quel partito un soggetto con una vera e riconoscibile identità politica. Ma forse è la Mission Impossible per eccellenza.