Il trono di Salvini traballa, gli scricchiolii, più che rumorosi, sono già assordanti. La sua sorte è appesa a due fili entrambi sottili: il risultato delle europee e la tenuta del Veneto. Ha due carte da giocare ma la prima è un'arma a doppio taglio: trattasi del generale Vannacci, riportato sotto i riflettori da inchieste e sospensioni e favore più grande non gli si poteva fare. Se accetterà la candidatura, e non è affatto certo, potrebbe rialzare le sorti del Carroccio nelle urne il 9 giugno e per Salvini sarebbe un sospirone di sollievo. Ma il graduato non piace a una parte sostanziosa dello stato maggiore leghista, per ragioni sia ideali che materiali. La sua fisionomia e la sua biografia corrispondono poco e niente a quelli di una Lega che è tornata a essere partito del nord e nella quale quindi la componente nostalgica delle origini ha ripreso molta forza. La frase tormentone che rimbalza nel partito la conoscono già tutti: «Che c'entra con noi». Non è solo questione di alti ideali. La delegazione leghista a Strasburgo è destinata comunque a essere falcidiata. I posti sono pochi e molto ambiti: cederne uno all'estraneo, piazzarlo anzi capolista come se fosse il salvatore della patria nordica va di traverso a molti a partire da in quei pochissimi seggi ci ha messo sopra il cuoricino e sono molti.

La seconda carta forte di cui probabilmente potrà disporre il Capitano in disgrazia è meno scivolosa ma presenta anch'essa aspetti in chiaroscuro. È l'autonomia differenziata e si può scommettere sin d'ora che se riuscirà a incamerarla prima delle Europee e senza sostanziali modifiche diventerà l'asso giocato dal leader non tanto un funzione esterna e per prendere voti, da quel punto di vista quando si esce dal nord- est l'arma non è solo spuntata ma controproducente, ma rivolta all'interno e contro la dissidenza. È qualcosa che si avvicina molto ai disegni del primo Bossi e dell'ideologo del Carroccio in culla Gianfranco Miglio. È un traguardo che neppure il senatur, ai tempidell'asse d'acciaio con Berlusconi, quelli del celebre “caminetto”, è mai riuscito a tagliare. In questi giorni proliferano quelli che rinfacciano all'ex salvatore della Lega l'aver tradito le nordiche radici, lo fanno gli esponenti della vecchia guardia recandosi di frequente in pellegrinaggio a Gemonio dall'anziano leader Bossi, ma lo fa anche Luca Zaia e questo per il capo è decisamente più inquietante. Come lo è il fatto che la vecchia guardia trovi oggi l'ascolto negatole nella breve era dei fasti salviniani. Però rinfacciare il tradimento della cau- sa nordica proprio al primo leader che riesce a conquistarne gli obiettivi non sarà facile. A questo allude Fedriga, che non è solo il governatore del Friuli e un pezzo grossissimo della Lega ma anche il solo papabile per l'eventuale successione, quando si schiera, almeno per ora, con il leader e risponde alle accuse dei nordici ricordano che l'autonomia è centrale anche nella Lega di Salvini. C'è però una contraddizione implicita e insanabile: riconoscere come unica vera conquista l'autonomia differenziata ( sempre che la Lega ci riesca davvero) significa ammettere che il Carroccio non può che essere quello di Bossi. La differenza tra quella Lega e quella di oggi è in fondo semplice: nonostante le carnevalate sul Po quella Lega era soprattutto un partito fondato sulla rappresentanza d'interessi e questo ne ha consentito la longevità. Salvini, nel tentativo fallito di trasformare la Lega in partito nazionale ne aveva fatto un partito d'opinione, per definizione molto più fragile e dal consenso volatile. Se la Lega è l'autonomia, cioè la rappresentanza degli interessi di una precisa e limitata area del Paese, come può Salvini, il leader che perseguiva un disegno opposto restarne leader?

È però possibile che il vicepremier riesca a disporre di una terza arma, che si rivelerebbe decisiva: l'amica/ nemica Giorgia. La premier deve scegliere fra tre opzioni: salvare Zaia, la certezza di conservare il Veneto e anche Salvini accettando il terzo mandato è la prima, tenere duro sul terzo mandato ma rinunciando al progetto di strappare il Veneto alla Lega, con un candidato presumibilmente scelto da Zaia la seconda, andare avanti come un caterpillar bocciando il terzo mandato e mettendo in campo il candidato di FdI De Luca alle prossime regionali. Quest'ultima opzione, la preferita dall'inquilina di Chigi, è anche di gran lunga la più pericolosa. Se Zaia decidesse di mettersi di mezzo con una lista da lui patrocinata, come è non solo possibile ma probabile, il disastro sardo sembrerebbe al confronto una passeggiata. Messo con le spalle al muro Salvini potrebbe scegliere di far saltare tutto e provocare la crisi oppure, una volta incassata l'autonomia, cambiare parere sul premierato già in aula, e anche in questo caso la crisi sarebbe inevitabile. Ma anche se tutto andasse per il meglio, dal punto di vista della premier, la leadership del vicepremier non resisterebbe a lungo e non è affatto detto che per lei Salvini non sia oggi il migliore tra tutti i leader della Lega possibili.

Infine c'è l'incognita Vannacci: se il generale scenderà in campo e se, come è possibile ma non certo, otterrà un successo personale notevole, insomma se starà alla Lega come Conte è stato al M5S, Giorgia Meloni dovrà vedersela con un competitor che la insidia sul suo terreno e molto più minaccioso di Salvini. Nella scelta decisiva sul che fare in Veneto di queste considerazioni dovrà per forza tenere conto.