Prima di rischiare del loro sull’ordalia italiana, i bookmakers aspettavano un segnale inequivocabile, che si faceva attendere. Poi Eugenio Scalfari si schierò a viso aperto per il Sì e la sconfitta fu accertata.

Dicono che per bookmakers e scommettitori sia stato un momentaccio. Prima di rischiare del loro sull’ordalia italiana aspettavano un segnale inequivocabile, che si faceva attendere. Già temevano di doversi accontentare dei sondaggi, che tanto varrebbe affidarsi alla zingara o ai fondi di caffè, quando finalmente l’indicatore infallibile si decise a rompere gli indugi.

Eugenio Scalfari si schierò a viso aperto per il Sì e da quel momento la sconfitta dello stesso fu accertata.

Nell’ambiente lo sanno proprio tutti: quello di Repubblica è il bacio della morte. Più fedele nei decenni dei Carabinieri o del corpo dei marines la malasorte riservata ai campioni del quotidiano fondato da Scalfari non demorde mai. Se Repubblica ti sostiene, condoglianze e non c’è amuleto che tenga. Lo sa anche il barbuto fondatore, che con encomiabile autoironia ha commentato a caldo la mazzata referendaria ricordando che, come al solito, lui si era appunto schierato con i mazzolati di brutto.

Col tempo le cose sono per la verità un po’ peggiorate. Una volta almeno erano sconfitte, magari persino di misura: adesso di tratta di rotte stile Waterloo.

Una volta, prima che arrivasse la randellata, c’era almeno il tempo di sperarci.

L’ultima campagna di Repubblica, quella sul “ campo progressista” di Giuliano Pisapia, è durata lo spazio di un mattino, e non per modo di dire: lanciata coi primi lucori dell’alba a pranzo era sepolta.

A prima vista, il rosario di sconfitte sembrerebbe avere un suo lato affascinante e ce lo avrebbe davvero se Eugenio Scalfari o i suoi epigoni potessero dire, come il Rhett Butler di “ Via col vento”: « Ho un debole per le cause perse, quando sono proprio perse » . Il fatto è che invece Repubblica vanta casomai un debole per le cause vinte, o che tali promettevano di essere. A cavallo tra i ‘ 70 e gli ‘ 80 non era affatto ovvio profetizzare che Bettino Craxi, dopo aver preso in mano un partito in via di smantellamento, nominato segretario proprio in virtù della sua presunta insignificanza, prevalesse su Enrico Berlinguer, che era invece la grande speranza della sinistra europea, aveva nei forzieri voti a valanga e s’industriava per rassicurare uno via l’altro i fobici poteri spauriti dall’eterno spettro rosso. Oppure, sempre per citare a caso, quando nel ‘ 93 l’odiatissimo Cavaliere decise che avrebbe venduto la sua mercanzia politica ai concittadini con il medesimo successo ottenuto smerciando nel decennio precedente immaginario, non è che fosse proprio facile presagire che ce l’avrebbe fatta.

Tanto che lo intuirono in pochissimi.

Più che per le cause perse, Repubblica ha un debole per le cause fatte proprie dai circoli per bene del potere, e quando s’imbizzarrisce è sempre perché all’orizzonte è spuntato qualcuno che per un motivo o per l’altro non appare consono ai salotti buoni dell’oligarchia di turno. Avventurieri come Craxi, capitalisti parvenu come Berlusconi, pezzenti con la camicia fuori dai calzoni alla Masaniello come Beppe Grillo.

Il primo a subire la benedizione maledetta del giornale più comme il faut che ci sia mai stato fu Enrico Berlinguer. Alla fine dei ‘ 70 la parola endorsement non figurava nel glossario della politica italiana, ma quello di Scalfari fu il nonno di tutti gli endorsement: prima nella fase della solidarietà nazionale, poi, col brando ancor più sguainato, in quella successiva. Il quotidiano che si voleva erede del miglior liberalesimo italiano scommise con il Pci sulla linea dura alla prima prova del fuoco: il sequestro Moro. Centrò l’obiettivo collaborando a imporre la fermezza e a far passare il sequestrato per pazzo. Meno di un anno dopo gli elettori massacrarono il Pci sottraendogli due milioni di voti e inaugurando la fase del lungo declino: “ Cameriere, champagne! ”. Negli anni dello scontro frontale tra Berlinguer il Diverso e Napolitano il Migliorista il giornale sparò tutte le proprie cartucce e anche qualcosina in più contro il secondo, reo di dialogare con l’uomo nero in persona, Bettino Craxi. Nel suo partito Berlinguer in effetti la spuntò, ma il Pci deragliò di brutto e finì fuori gioco mentre Bokassa dilagava.

Un freno allo strapotere del milanese da bere poteva essere Giovanni Spadolini, roseo leader repubblicano e già direttore del rivale Corriere della Sera, che nel giugno 1981 divenne il primo presidente del consiglio non Dc per il tripudio di Repubblica. Come finì, meno di un anno e mezzo più tardi, lo illustra con sintesi mirabile il titolo con cui il medesimo giornale ne salutò le dimissioni: « Addio Presidente, il sogno è finito » . Preparate i fazzoletti.

Con l’evolversi del decennio rampante la lista dei condannati dal sostegno di Repubblica non poteva che allungarsi. Dopo il pingue nordico arrivò il turno di un più più smilzo meridionale, Ciriaco De Mita. Andava di moda quella che allora si chiamava “ grinta”, sponsorizzata dal ringhioso leader socialista, e De Mita prometteva di averne a sufficienza per sfidarlo. I “ repubblicani” s’entusiasmarono, il fondatore galvanizzato scrisse e intervistò a dovere. Bettino non si smosse di un centimetro e senza la calata di Mani pulite avrebbe continuato a troneggiare anche più a lungo.

Furono i giudici, non la corazzata di De Benedetti a far fuori lo storico nemico di Repubblica, e ci sarebbe stato comunque motivo di festeggiare se a sostituirlo non fosse arrivato forse il solo italiano più inviso a Scalfari che ci fosse, quel Silvio Berlusconi che pochi anni prima aveva provato a scalare proprio il sacrario di Repubblica e che nel frattempo aveva soffiato Mondadori a De Benedetti.

Il resto è storia recente, ed è una storia che va mutando in peggio. Se una cosa non si può rimproverare a Scalfari è di mutare opinione a seconda della sorte. Sconfitto, se l’è sempre legata al dito e ha continuato a osteggiare i nemici di turno con tutti i mezzi a propria disposizione. Dai primi commenti del nuovo direttore dopo la sconfitta referendaria di un Sì che aveva spalleggiato quasi più di ogni altro, c’è il rischio che anche quel merito finisca presto rottamato.

PAOLO DELGADO