«Niente è facile in questo momento», risponde un po' sconsolato il ministro Giorgetti quando, nella conferenza stampa di presentazione della legge di bilancio, gli chiedono che ne sarà dell'unificazione delle prime due aliquote Irpef, al momento in vigore solo per l'anno prossimo, se la crescita dell'1,2 per cento prevista dal governo si rivelerà meno precisa di tutte le altre previsioni, attestate tra lo 0,7 e lo 0,8 per cento. La risposta è eloquente tanto più che il ministro, per il resto, rivendica successi a rotta di collo. Insomma, quella risposta inevitabilmente vaga non è frutto di attitudine pessimistica ma di un realismo che al sorriso concede ben poco.

Prima di lui Giorgia Meloni aveva scelto l'understatement: «Come sapete la situazione è un po' complessa». Passando poi a quantificare: l'anno prossimo gli interessi sul debito cresceranno di ben 13 mld, il superbonus rincararerà con altri 20. La manovra di quest'anno, quella squadernata a grandi linee ieri, per i dettagli bisognerà attendere l'approdo in Parlamento nell'ultima decina di ottobre, vale meno del rincaro già fissato per l'anno prossimo sempre che le cose non peggiorino e con il Medio Oriente in fiamme non è affatto escluso. In queste condizioni non ci si potevano aspettare sorprese dalla manovra e non ce ne sono state.

L'accorpamento delle aliquote, che però al momento grazie a un taglio delle detrazioni di 260 euro rifletterà i suoi effetti solo sulle fasce di reddito più basse, figura al secondo posto nella scarna lista degli interventi permessi dai chiari di luna in questa legge di bilancio. In testa, come già universalmente noto, c'è la conferma del taglio del cuneo fiscale di 6 punti per i redditi fino a 35mila euro e di 7 per quelli fino a 25mila, per tutto il 2024. Non è solo il fiore all'occhiello del governo: è la bandiera che non si poteva ammainare senza dichiarare la sconfitta secca. Il grosso delle risorse, più o meno 10 mld, finirà lì e del resto, a parte Calenda, nessuno nell'opposizione aveva chiesto di rinunciare al taglio del cuneo. In parte serve a confermare l'immagine che il governo vuole dare di se stesso, quella di un esecutivo attento soprattutto alle fasce più povere. Ma il margine di rischio c'è: se non basterà a evitare ulteriori cali della domanda interna, insomma dei consumi, e a frenare la retromarcia nel tassi di occupazione dopo l'impennata del primo trimestre, la partita si chiuderà in rosso.

Alla sanità vanno 3 mld a fronte dei 4 chiesti dal ministro Schillaci. Il Fondo sanitario arriva così a 136 mld ed è «il più alto mai previsto», sbotta la premier aggiungendo che «le bugie sui tagli non corrispondono alla realtà». Oddio, è vero, ammette, che se lo stanziamento si rapporta al Pil effettivamente la percentuale è scesa, ma che c'entra? «È perché il Pil è salito!», esclama la presidente e il sottinteso è che ci manca solo che sia una colpa. Le intenzioni del governo sono concentrare tutti i 3 mld sul lato più esposto, il disastro numero 1 della sanità pubblica italiana, le liste d'attesa. Per il contratto della Pa ci sono 7 mld, 2,3 dei quali per il personale sanitario. Anche in questo caso, tutto dipenderà dai risultati ed è uno di quei fronti sui quali popolazione ed elettorato la prova del 9 la faranno direttamente e per esperienza.

C'è molta ideologia in questa manovra povera che buona parte del mondo economico e finanziario che conta giudica invece sprecona perché spende poco ma non taglia mentre loro, da Fitch al Fmi alla Bce, vorrebbero le lacrime e il sangue pur di abbassare subito il debito. È concentrata quasi tutta sugli aiuti per le famiglie, azzeramenti dei contributi previdenziali per le madri di almeno 2 figli, incremento del 50 per cento dell'assegno unico per le famiglie con tre figli, un mese in più di congedo parentale pagato all'80 per cento dello stipendio, nidi gratis dal secondo figlio in su. La si può chiamare politica demografica ma certo ricorda da vicino l'impostazione del ben noto Regime.

Fi è rimasta a bocca asciutta sull'aumento delle pensioni minime e anche la rivalutazione è piena solo per le pensioni sino a 4 volte il minimo. Alla Lega è andata peggio: sperava di fare almeno un passetto avanti rispetto a quota 193, invece, di fatto si passa a quota 104. Salvini fa finta di niente e anzi esulta perché i soldi per il suo Ponte ci sono. Quanti? Sul particolare il ministro leghista dell'Economia resta sul vago. Tanto i soldi veri, afferma, serviranno per il 2025 e il 2026. Al momento Salvini dovrà accontentarsi degli spicci.

Per varare la manovra il governo ci ha messo un'ora scarsa. È un segnale politico anche se rivolto all'estero. Il semaforo verde dell'Europa non è assicurato, mostrare crepe sarebbe esiziale. Per lo stesso motivo Meloni, Giorgetti e Salvini si augurano che dalla maggioranza non arrivi neppure un emendamento piccolo piccolo. Il vicepremier leghista, unico presente essendo Tajani impegnato all'estero, si allarga sino a garantirlo: «Non ci saranno emendamenti». Fatta salva ovviamente la “valanga di emendamenti” che promette l'opposizione. Sarà, ma l'annuncio ai gruppi parlamentari di Fi e persino FdI non è piaciuto affatto. Non garantiscono di adeguarsi.