Qual è la vera Giorgia Meloni? È quella scalmanata che da Budapest dipinge un Europa assediata da una marea infedele che minaccia la nostra identità e la nostra religione, tanto da dover scendere in campo addirittura in difesa di Dio? È quella che, molto meno rumorosamente, vara un decreto flussi record: 452 mila ingressi in 3 anni? È quella che con toni da generalessa illustra una strategia agghiacciante ma probabilmente destinata al fallimento: creare un situazione tale da costringere i migranti ad aver paura di mettere piede in Italia? Oppure è quella che si presenta a Lampedusa a braccetto con la massima rappresentante delle istituzioni europee, una Ursula von der Leyen che arriva con la bocca piena di promesse e le mani completamente vuote?

La domanda è oziosa. Giorgia Meloni è tutte e due le incarnazioni con le quali di volta in volta si presenta al mondo. È Giano bifronte ed entrambi i volti sono veri. L'accusa di far solo propaganda, rivoltale puntualmente dalle opposizioni, è miope. Giorgia Meloni fa effettivamente molta propaganda, ma non solo propaganda. Ha una strategia in mente, a differenza di Salvini, un maestro nello sfruttare gli umori popolari del momento ma poco capace di guardare le cose in prospettiva. Dal punto di vista della politica di lungo corso la premier italiana può vantare successi. I ricollocamenti, già pomo della discordia tra i Paesi europei, sono scomparsi dai radar.

La revisione del Trattato di Dublino è precipitata in fondo all'agenda delle urgenze dell'Italia, cioè del Paese che più di ogni altro sarebbe interessato a modificarlo: ci si può immaginare quanto peso diano alla riforma i Paesi che, al contrario, hanno tutto l'interesse a non cambiare niente. Di accoglienza non si parla proprio. Quando i Paesi europei parlano di collaborare e di affrontare insieme l'emergenza alludono solo alle modalità per fermare gli immigrati, accelerare e facilitare i rimpatri, collaborare con i Paesi di transito per fermare le partenze o riprendersi gli espulsi.

In sintesi: la Fortezza Europa non è più il cavallo di battaglia della destra. È la strategia comune dell'Europa. Le dichiarazioni della ministra degli Interni tedesca Faeser, ieri, erano fotocopie di quelle del governo italiano. Anche se Nancy Faeser è esponente della Spd. L'omologo francese Darmanin, pochi mesi fa il più determinato nel criticare l'Italia, non si discosta. Per la leader di FdI che considera da sempre i dibattiti su accoglienza e ricollocamenti sbagliati, anzi controproducenti, perché allontanano dal vero obiettivo, cioè dall'impedire che gli irregolari mettano piede sul suolo europeo, è una vittoria culturale prima ancora che politica netta.

Per portare avanti, passo dopo passo, questa linea Meloni ha bisogno dell'Europa, sia perché un pattugliamento del mare solo italiano è fuori discussione, sia perché senza la cooperazione dell'intera Unione sarà impossibile qualsiasi intervento economico in Africa. La faccia grintosa e la faccia dialogante non sono in contraddizione. Al contrario. Nei tempi brevi, però, questa strategia paga pochissimo e la base elettorale della destra, aizzata da Salvini ma anche dal versante feroce di Giorgia Bifronte, chiede proprio risultati immediati, o almeno misure che diano la sensazione di una reazione immediata. Nel tripudio di solidarietà finché si tratta di respingere, Francia e Germania hanno chiarito ieri che se invece si tratta di accettare irregolari i cancelli restano sbarrati. Su questo fronte, dunque, la premier è costretta ad adeguarsi alla drasticità repressiva invocata da Salvini, pur sapendo probabilmente che si tratta proprio di quelle misure che lei stessa, pochi giorni fa, ha definito «effimere e non strutturali».

In questo esercizio di equilibrismo che richiede non solo abilità ma virtuosità, la premier italiana deve inoltre fare i conti con una resistenza interna alla Ue che mira proprio a impiombare la sua linea strategica. La bocciatura da parte del Consiglio della Ue ( da non confondersi con il più importante Consiglio europeo) del memorandum con la Tunisia firmato dalla presidente von der Leyen, dalla premier italiana e dall'olandese Rutte, allora premier, è un segnale esplicito. Non che ce ne fosse bisogno: le pastoie burocratiche grazie alle quali la Ue non ha ancora sborsato un euro dei 150 più 105 milioni promessi avevano già chiarito quanta resistenza incontri la linea Meloni- von der Leyen a Bruxelles. In queste condizioni prima o poi Giorgia Meloni sarà costretta a scegliere una faccia sola: quella che piace a Salvini o quella che piace a Bruxelles, Berlino e Parigi.