La pagella alla fine del primo anno di governo è ormai una tradizione alla quale certo non poteva sfuggire Giorgia Meloni. Al contrario, trattandosi di un governo che si annunciava per i numerosi e noti elementi di rottura con il passato, voti e giudizi stavolta si sono letteralmente sprecati. Il limite di quello che in ultima analisi è soprattutto un gioco giornalistico sono evidenti e si ripetono sempre uguali di governo in governo: i commentatori “amici” si concentrano sempre sul bicchiere mezzo pieno, e fosse pure pieno solo per un quarto, a quelli ostili non sfugge una pecca, fosse pure di infima importanza. L'abitudine combacia del resto perfettamente con l'esperienza del governo Meloni, perché in questo caso sia chi vuole esaltare i risultati che chi vuole negarne l'esistenza hanno argomenti in quantità. Il governo Meloni è di per sé un bicchiere mezzo vuoto e mezzo pieno, alla fine dei suoi primi 12 mesi di attività.

I critici segnalano che la premier e la sua squadra non hanno mantenuto nessuna delle promesse con le quali avevano largheggiato in campagna elettorale e qualche volta, anzi, sono andati in direzione opposta a quella annunciata alla vigilia del voto. Impietosi, accusano il governo di non aver fatto quasi niente in generale, non solo per quanto riguarda la ricca agenda che usavano sbandierare. La critica è fondata ma è anche vero che realizzare qualcosina in più un governo con le tasche completamente vuote avrebbe dovuto sfidare l'Europa e il suo poco mutato rigorismo, e in quel caso si sarebbe attirato critiche anche più feroci perché “sovranista” e “antieuropeo”. Al contrario, e assolutamente a sorpresa, l'adesione incondizionata ai dettati rigoristi ha garantito a Giorgia Meloni una credibilità e anche un vero rispetto in Europa letteralmente inimmaginabili quando la prima premier proveniente dalla destra radicale giurò di fronte al capo dello Stato.

Certo, quando la grancassa del governo ripete che l'Italia ha conquistato un ruolo mondiale centralissimo, come mai prima d'ora, l'effetto è increscioso, però, propaganda a parte, è vero che sul fronte della politica estera (sul quale Meloni è stata onnipresente, molto più che in politica interna, tanto anzi da imporre qualche domanda su cosa ci stia a fare il ministro degli Esteri) il bilancio del governo è in attivo.

Per la credibilità agli occhi non degli avversari ma della sua stessa base il capitolo più deludente è l'immigrazione, per il semplice fatto che gli sbarchi si sono moltiplicati invece di rarefarsi come promesso e garantito. Ci si immagini però quale sarebbe stata la reazione se la premier avesse mantenuto la parola e avesse tentato la carta folle di un blocco navale, o anche solo delle navi bloccate di fronte ai porti seguendo l'esempio di Salvini. Meloni, in realtà, sembra piuttosto provare a coniugare alcuni elementi della sua propaganda ringhiosa, come il fallimentare e autolesionista dl Cutro, con una strategia molto meno improvvisata, basata sul tentativo di portare sulle proprie posizioni, “Non ricollocare ma impedire gli ingressi”, l'intera Unione.

Il capitolo Pnrr è meno disastroso di quanto non appaia: il Piano originale, scritto in una situazione mondiale molto diversa, senza guerra e inflazione, sarebbe stato quasi certamente proibitivo per ogni governo. Non che il governo abbia ancora dato alcuna prova di saper spendere quei 200 e passa mld, che è la vera prova del 9. Ma per ora non ha neppure provato di non saperlo fare. Insomma, la pagella alla fine del primo anno incontra troppe incognite, valgano per tutte le riforme istituzionali, per avere un senso al di là delle opposte propagande.

Neppure sull'identità politica di Giorgia Meloni questo primo anno ha fatto chiarezza. Al contrario, ha confuso le idee anche di più. Molti hanno notato che sembrano esserci due diverse Meloni: la premier accorta e responsabile che cerca di costruire strategie europee sui capitoli essenziali dell'agenda politica e un propagandista sguaiata ed estrema che viene fuori non solo nei comizi all'estero ma a volte anche nelle scelte politiche reali, come il rifiuto a tutt'oggi insuperato di firmare la ratifica della riforma del Mes. Insomma sembra che Meloni non sappia scegliere tra l'anima conservatrice, certo di destra ma in una cornice tollerabile anche per chi rifiuta tutta la sua impostazione e le scelte che ne derivano, e quella sovranista e comiziante. Ma forse si tratta di una impressione sbagliata: la visione della premier è sempre la stessa.

Pragmatica, astuta e realista, Giorgia Meloni sa che la strada da battere non può essere quella fragorosa ma perdente del precedente governo gialloverde e deve invece essere una costruzione paziente fondata su mediazioni che spesso impongono di pagare un prezzo alto. Se quella strada darà frutti, e lo si capirà dopo le elezioni europee a Bruxelles e Strasburgo la premier continuerà a batterla. In caso contrario slitterà su quel versante più radicale, che non ha mai davvero abbandonato.