A ognuno il suo Pd. Potrebbe essere questo il titolo dell’ultimo capolavoro politico andato in scena all’ombra del Nazareno. Perché ci sono virtuosismi, e pastrocchi, che solo ai dem possono riuscire con naturalezza e senza rossore. Così, dopo aver partorito un nuovo e travagliatissimo “Manifesto dei valori”, la bussola politica del partito che verrà, il Pd ha pensato bene di approvarlo in Assemblea senza però abrogare quello precedente, del 2008. Come a dire: la musica cambia, compagni, ma se qualcuno volesse ballare sui ritmi precedenti potrà continuare a farlo. Roba che neache a Beppe Grillo e Gianroberto Casaleggio dei bei tempi - alle prese con Statuti, regolamenti e carte dei valori cambiate decine di volte - sarebbe mai venuta in mente.

I dem, del resto, sono maestri nell’arte di non scontentare nessuno e perché non dovrebbero applicarla in casa loro? Gli iscritti potranno dunque scegliersi la carta dei valori che preferiscono, in base alle inclinazioni di ognuno, anche sui grandi temi. Sul “mercato”, ad esempio, se qualcuno è rimasto affezionato alla formula del vecchio Manifesto - «Compito dello Stato non è interferire nelle attività economiche, ma fissare le regole per il buon funzionamento del mercato, per mantenere la concorrenza anche con politiche di liberalizzazione» - potrà farlo senza alcun problema.

Se un altro iscritto, però, ritiene più adatta alla propria visione la nuova versione del documento potrà sfogliare allegramente il “depliant” fino al punto: «Uno Stato regolatore e innovatore è in grado di mettere in risalto la capacità trasformativa delle imprese, correggendo ed evitando al tempo stesso i fallimenti di mercato». Ce n’è per tutti i gusti. Anche sul lavoro, una delle ragioni fondanti della rappresentanza politica di un partito come il Pd. I nostalgici del veltronismo/blairismo potranno rimanere ancorati al vecchio “verbo”: «La velocità dei processi innovativi impone flessibilità e frequenti cambiamenti nel corso della vita lavorativa».

I militanti più progressisti, invece, potranno tirare un sospiro di sollievo: la parola “flessibilità” non compare nemmeno una volta nel testo appena licenziato. Anzi, al massimo si precisa: «Per noi il lavoro o è dignitoso o non è. Perché se non è riconosciuta e garantita la sua dignità, il lavoro non può svolgere il suo ruolo trasformativo della società».

Del resto, la flessibilità non è l’unica “reietta” del nuovo documento, perché dai valori dem sparisce anche la “globalizzazione”, la protagonista assoluta dell’epoca del Lingotto. O meglio, sparisce per chi vorrà farla sparire, resterà per chi continuerà a tenere in tasca il “libretto” del 2008 su cui, tra globalizzazione e globalizzato, appare ben tredici volte. Si perdono anche le tracce del bipolarismo nell’ultima versione seppur ben presente in quella precedente e ancora in corso. Ma per qualcuno che va c’è qualcun altro che viene. E tra le new entry del 2023 fa bella mostra di sé la parola “uguaglianza”, nominata ben dodici volte, contro l’appena una del 2008.

La lista delle incongruenze potrebbe anche essere più lunga, ma per amor di lettore ci limitiamo a questa rapida rassegna. Quel che è certo è che il Pd si candida a diventare il primo partito multiforme della storia, adatto a qualsiasi esigenza, con più “Costituzioni” vigenti. Resta da chiedersi a cosa servisse individuare 87 saggi per stilare il novo documento e animare discussioni serrate, se poi ognuno potrà fare a gusto proprio, candidati segretario compresi.

Forse era solo un escamotage per far rientrare i compagni “scissionisti” di Articolo 1 all’interno di un soggetto formalmente nuovo senza perdere la faccia. O forse, semplicemente, il Manifesto dei valori non ha proprio alcun valore per la classe dirigente dem. Neanche simbolico.