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È facile ironizzare sul servilismo estremo del segretario generale della Nato Rutte, esposto in bella mostra nei messaggi privati al Cesare di Washington che il medesimo non si è peritato di rendere noti al mondo. È probabile, anzi certo, che molti altri leader, inclusa la premier italiana, avrebbero adoperato toni meno cortigiani: pur se in privato sarebbero stati attenti a salvare le forme e con loro uno straccio di dignità.
Ma nella sostanza la genuflessione di Rutte mette in luce quel che succede al vertice dell’Aja più onestamente delle dichiarazioni ufficiali degli altri capi di governo dell’Alleanza e soprattutto di quelli europei. «È il vertice di Trump», sintetizza il suo segretario di Stato Rubio e ha ragione. I leader dell’Alleanza atlantica non si sono riuniti per discutere sul come fronteggiare l’eventuale minaccia russa. Dovevano ratificare un sì corale al diktat del presidente americano.
La proposta che hanno sottoscritto non viene da Rutte, che si è limitato a metterla in bella forma e a trattare le modalità di adesione: è l’ordine di Donald Trump. La consegna del 5% del Pil di ciascuno Stato per le spese militari della Nato è meno rigida di quanto non appaia, anche se ciò non significa che il nodo scorsoio non sia piuttosto soffocante. Le modalità concordate da Rutte e sponsorizzate con notevole vigore anche dall’Italia sono fatte apposta per concedere a ogni Paese margini discrezionali di elasticità. Ognuno, negli anni a venire, tratterà per sé nei controlli sul progresso della marcia armata.
Il solo Paese che prova a opporsi apertamente è la Spagna, lasciata però sola. Trump e Rubio, furibondi, la definiscono «un problema». Tajani assicura che le parole del premier spagnolo Sanchez sono piume, la sola pietra essendo la firma in calce all’impegno comune e quella firma c’è. Il ministro italiano ha i suoi interessi da difendere. Se venisse fuori che era possibile dire no a un impegno che all’Italia costerà molto le critiche al governo di cui Tajani è vicepremier diventerebbero al vetriolo. L’esito ancora non chiaro della sfida spagnola sarà significativo per tutti.
Nel complesso però quello dell’Aja è stato il vertice dell’inchino collettivo ai voleri di Washington. Del resto la partita iraniana, anch’essa al momento ben poco trasparente, andava a rotta di collo in quella direzione. Né la Ue né i singoli Stati sono riusciti a mettere in campo una posizione autonoma in grado di andare oltre il sostegno all’azione di Israele e poi anche degli Usa ma con l’auspicio di tornare al dialogo. Trump si è mosso consapevolmente in modo da esaltare al massimo il suo ruolo di dominus incontrastato a fronte di un'Europa balbettante.
È in questa condizione che la Ue si avvicina all’appuntamento fondamentale, quello della trattativa sui dazi che arriverà alla fase decisiva subito dopo il Consiglio europeo che parte oggi, per concludersi entro il 9 luglio, giorno in cui scade la “tregua” concessa dal presidente americano.
All’Aja, Meloni si è mostrata ottimista. Per lei la chiusura del mercanteggiamento con tariffe al 10% e una mediazione accettabile e per l’Italia sostenibile. Altri Paesi sono meno convinti. Alla fine l’Unione troverà una posizione comune, perché nulla sarebbe più disastroso di mettere in piazza le divisioni interne. Però nulla garantisce che, al coperto di quella posizione comune, non partano poi quelle trattative Paese per Paese che tutti giurano di non volere e alle quali mira invece la Casa Bianca.
In generale è evidente che l’Europa si è fatta cogliere del tutto impreparata dall’arrivo del ciclone Donald. Certo è anche vero che le crisi sono per definizioni tanto una minaccia quanto un’opportunità. Nella visione della premier italiana, come in quella del cancelliere tedesco, il riarmo dovrebbe diventare una sorta di piano industriale, declinandosi non nell’acquisto di armi americane ma in una politica industriale italiana ed europea espansiva. La chiusura anche solo parziale dell’ombrello americano potrebbe spingere l’Europa verso l’accelerazione sin qui mancata del processo di integrazione, come auspica il presidente Mattarella. Ma certo per scommettere su un esito di questo tipo e non opposto bisogna essere molto ottimisti.