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La presidente del Consiglio Giorgia Meloni e il ministro degli Esteri Antonio Tajani al Senato durante le comunicazioni sul prossimo Consiglio europeo del 26 e 27 giugno, Roma, Martedì 24 Giugno 2025 (Foto Roberto Monaldo / LaPresse) Premier Giorgia Meloni and Foreign minister Antonio Tajani in the Senate during the address ahead of European Council meeting on 26-27 june, Rome, Tuesday, June 24, 2025 (Photo by Roberto Monaldo / LaPresse)
Rilanciare il ruolo dell’Italia nella Nato, anche col sì all’impegno chiesto dagli Stati Uniti di portare in dieci anni la spesa per la Difesa al 5% del Pil. Giorgia Meloni lo ha ribadito nell'aula del Senato, nel giorno delle seconde comunicazioni della presidente del Consiglio in vista del Consiglio europeo e nel giorno dell'inizio del vertice dell'Alleanza atlanrtica.
Un tema delicato, quello delle spese per le armi, che sta spaccando l’opposizione ma che vede qualche crepa anche in maggioranza (fronte Lega) e accende il confronto con la segretaria del Partito Democratico Elly Schlein, che sceglie in mattinata di replicare direttamente a Meloni. Quest’ultima, dal canto suo, rivendica la scelta come un atto di responsabilità: «L’impegno che i Paesi della NATO si apprestano ad assumere è flessibile e graduale: l’aumento è previsto in dieci anni e il vero tema è su cosa investiamo».
Una risposta alle accuse di chi parla di una deriva militarista. Per Meloni, rafforzare la Difesa non significa rincorrere la guerra ma «garantire la sicurezza», in linea con l’antico adagio romano: Si vis pacem, para bellum. «Se hai un sistema di difesa solido, puoi più facilmente evitare i conflitti», spiega la premier. E ribadisce: «Non ci si può nascondere dietro facili pacifismi. Serve un’Europa forte all’interno della Nato, ma senza costruire una difesa parallela».
«Se vogliamo la pace», replica Schlein, «prepariamo la pace. L’Italia deve costruire la pace, non preparare la guerra». La polemica politica si consuma sui banchi dell’opposizione, ma Meloni sceglie di non rispondere agli attacchi diretti, salvo affondare – con un’ironia che non passa inosservata – contro il Movimento 5 Stelle e Giuseppe Conte: «Vorrei tanto essere Giuseppe Conte, invece sono Giorgia Meloni. Nella vita non si può essere sempre fortunati».
Un passaggio che fa sorridere i banchi della maggioranza e scatena la replica a distanza dell’ex premier, accusato di aver firmato l’impegno a spendere il 2% del Pil per la Difesa salvo poi ignorarlo nei fatti: «Una firma è una firma. Conte ha deciso di non rispettarla, così ha fatto percepire l’Italia come una nazione inaffidabile. Io voglio che l’Italia sia una nazione affidabile», ribadisce Meloni tra gli applausi della destra. In realtà, il messaggio della presidente del Consiglio ha un doppio registro. Da un lato Meloni si presenta come leader istituzionale, pronta al confronto con l’opposizione “costruttiva”, tanto da lodare pubblicamente gli interventi riformisti di senatori come Delrio e Alfieri.
Dall’altro, usa il dibattito in aula per tentare una spaccatura nel Pd, valorizzando i dem più dialoganti e lasciando intendere di considerare marginali le posizioni più vicine a Elly Schlein. Proprio la leader dem, come detto, non ci sta e rimanda al mittente la visione di Meloni: «Rispetto a duemila anni fa il mondo è andato avanti. Preparare la guerra è l’opposto di quello che serve al nostro Paese. Noi dobbiamo costruire la pace con il dialogo e il multilateralismo, come dice la nostra Costituzione».
Schlein evoca l’articolo 11, quello che sancisce il ripudio della guerra, e traccia la linea: «Se vogliamo la pace, prepariamo la pace». Nel frattempo, l’aula del Senato approva senza sorprese la risoluzione di maggioranza e quella di Azione, riformulata in alcuni passaggi su proposta del governo. Una convergenza trasversale che fotografa un consenso ampio sulle linee generali, ma non cancella le fratture profonde sulla questione della Difesa.
Meloni respinge anche l’accusa – più volte evocata dal Movimento 5 Stelle – di un’Italia subalterna agli Stati Uniti: «Io non sono per chiudere i mercati. Se parliamo di Alleanza Atlantica ci deve essere la possibilità di lavorare con gli alleati, ma è chiaro che le spese devono andare prioritariamente ad aziende italiane ed europee». E lancia un affondo sulla politica estera fatta “per le telecamere”: «Non considero politica estera quella fatta di foto opportunity. Io faccio molte più cose di quelle che condivido, perché credo che il tentativo disperato di farsi vedere possa portare a commettere errori. L’unico giudizio che conta è quello degli italiani e arriverà al momento opportuno».
Dal dossier ucraino a quello mediorientale, la premier rivendica un’Italia protagonista, ben oltre le polemiche domestiche. E non rinuncia a leggere in chiave ottimista l’evoluzione dello scenario in Medio Oriente, seppur complicato: «L’attacco dell’Iran in Qatar è sembrato da subito simbolico, gli Usa erano stati avvertiti e quasi tutti i missili sono stati intercettati. Siamo ancora fiduciosi che si possa proseguire con la tregua e tornare alle negoziazioni». E rilancia la proposta italiana per il dopo-Gaza: un coinvolgimento diretto dei paesi arabi nella ricostruzione, in una prospettiva di stabilizzazione condivisa. L’equilibrismo di Meloni, dunque, è stato confermato sul versante diplomatico e dei rapporti con gli Usa, mentre sul fronte interno non sono mancate fiammate polemiche tese ad accentuare le divisioni in seno all'opposizione.