I molti che si chiedono se Giorgia Meloni sia quella di Roma o di Madrid, sia pur stavolta solo in call, dimostrano di non aver capito la situazione, o più probabilmente fingono di non averla capita. Giorgia Meloni è se stessa in entrambi i casi e anzi proprio coniugare quelle due facce solo in apparenza inconciliabili è la sua scommessa. Di sfuggita, proprio quella scommessa è quel che per lei più conta nelle prossime elezioni europee. Le lamentele per quanto poco spazio i politici, ma anche giornalisti e analisti, dedicano all'Europa in una campagna elettorale che solo d'Europa dovrebbe parlare sono senz'altro fondate. Ma il fatto è che per quasi tutte le forze politiche le elezioni del 9 giugno contano davvero solo come "sondaggione" a uso della politica interna. Le sole eccezioni sono in parte Antonio Tajani, che gioca una partita personale e potrebbe ritrovarsi sulle soglie della presidenza della Commissione europea se cadesse il veto della Germania contro un presidente non tedesco, e soprattutto Giorgia Meloni: la sola per cui la registrazione dei rapporti di forza in patria conta meno della partita europea.

In quella partita l'obiettivo ambizioso della premier italiana è far convergere le due spinte opposte: quella del governo "europeista e atlantista" ormai pienamente legittimato dall'Europa e in Europa per non parlare d'oltreoceano, e quella del radicalismo di destra dal quale proviene. Si tratta di sfruttare quella spinta per moltiplicare il proprio peso specifico in Europa, un po' facendosi portavoce dell'onda di destra un po' presentandosi come unico frangiflutti in grado di impedire l'inondazione, e allo stesso tempo di adoperare la legittimazione ottenuta a Bruxelles per indirizzare il grosso delle forze di destra europea.

Da questo punto di vista la probabilissima divisione che si creerà al momento di votare la prossima presidenza è un problema minore. È già successo: nelle elezioni del 2020 il Pis polacco votò per von der Leyen, gli italiani no.

Stavolta il gioco si ripeterà a parti rovesciate e nessuno se ne farà davvero un problema. La premier italiana si limiterà ad assicurare che il voto per la presidenza non equivale affatto a entrare in una maggioranza politica, probabilmente con i socialisti e il resto della maggioranza Ursula. Gli alleati faranno finta di non sapere che nel Parlamento europeo, il cui funzionamento è diverso anzi molto diverso da quello italiano, il solo momento in cui si può parlare di una maggioranza è proprio l'elezione della presidenza della Commissione.

In realtà, al netto dello scandalismo da campagna elettorale, nell'intervento della premier alla convention di Vox quel che colpisce è casomai quanto poco abbia premuto sul pedale sovranista. Prima di tutto è intervenuta solo collegandosi in video, e non si tratta di un particolare. In secondo luogo i toni, pur accesi, sono rimasti sempre distanti dal famigerato comiziaccio spagnolo, quello del «Soy Giorgia». Nei contenuti, poi, l'italiana si è tenuta essenzialmente sul terreno in fondo più sicuro: cristianità, famiglia, radici europee identitarie, rifiuto della politica gender, denuncia e crociata contro la maternità surrogata. Sono argomenti sensibili e molto divisivi, infiammano i dibattiti ma in Europa non quel che conta di più. Non sono la guerra e l'economia. Non sono neppure l'immigrazione, tema tenuto dalla premier molto sotto tono. Si aggiungano i numerosi richiami europeisti, sia pure in nome di un'Europa da rimodellare in senso conservatore, e apparirà chiaro che Giorgia Meloni è stata molto attenta a non far entrare in palese contraddizione il suo versante "salotto europeo" e quello "comizio di piazza".

In realtà, infatti, le critiche si sono appuntate più sulla discutibile compagnia che sui contenuti del discorso. Ma anche da quel punto di vista il quadro appare oggi meno proibitivo di quanto non fosse appena un anno fa. È progressivo ed evidente lo slittamento di Marine Le Pen su posizioni accettabili per l'establishment sul capitolo più determinante di tutti, il rapporto con Putin, ma anche sull'antieuropeismo sbandierato. Non significa che sia sul punto di entrare nei Conservatori, dove del resto si creerebbe, e probabilmente si creerà prima o poi un grosso problema: Marine e Giorgia non sia amano e sono in diretta competizione per la leadership della destra europea. Se Il Rassemblement National entrasse nell'Ecr la sua sarebbe probabilmente la delegazione più forte ma soprattutto se riuscirà a scalare l'Eliseo Le Pen sarà presidente del secondo Paese d'Europa, limitando così di molto il ruolo dell'italiana. Ma questi sono scogli a venire.

Oggi i problemi sono solo l'AfD tedesca e la Lega. Più precisamente, la Lega di Salvini, non quella di Giorgetti o del partito del nord e la permanenza di Salvini ai vertici del Carroccio, si sa, è pericolante. L'AfD è l'appestata d'Europa e tale la considerano in fondo anche Meloni e Le Pen. Ma bisogna dare tempo al tempo. Le forze sovraniste premono sempre sull'acceleratore radicale quando si tratta di crescere e avvicinarsi al potere salvo poi frenare quando quel potere sembra a portata di mano o addirittura conquistato. E i centristi, liberali o popolari che siano, si sono sempre dimostrati di manica molto larga di fronte alle conversione, ai riposizionamenti, se necessario alle abiure.