Il primo Campo Hobbit, nel 1977, fu una specie di rivoluzione per i giovani dell'estrema destra: una delle espressioni di quel fenomeno composito e mai davvero studiato che fu il “77 nero”. Come l'uscita già tre anni prima del periodico La voce della fogna ma anche come la nascita di quella banda armata anarco-fascista che furono i Nar. Il nome del Campo era ispirato dal testo che, arrivato in Italia solo nel 1974, era diventato un totem della destra, anche se negli Usa, al contrario era stato adottato dagli hippies: Il signore degli anelli di R. R. Tolkien. Quando, nel giugno 1977 si svolse a Montesarchio la prima edizione del Campo Hobbit Giorgia Meloni aveva 5 mesi esatti. L'ultimo Campo è del 1981, quando l'attuale premier andava per i 4 anni. Ci sono stati in seguito tentativi di riprendere se non quell'esperienza almeno il nome, l'ultimo nel 1995 a opera del Movimento Sociale-Fiamma Tricolore, un partitino che si opponeva alla svolta di Fiuggi. Non si sa se la diciottenne Giorgia partecipò ma è molto poco probabile.

Giorgia Meloni non viene da quell'esperienza e la stessa militanza nel Msi è stata meteorica: adesione al Fronte della Gioventù, appena quindicenne, nel 1992, fondazione del coordinamento studentesco di destra “Gli Antenati” nello stesso anno. È probabile che Tolkien come quasi tutti e in particolare tutti i giovani di destra la futura premier lo abbia letto allora ma la passione per quella mostra su Tolkien che nel giro di due giorni è diventata il must per eccellenza della destra che conta è soprattutto l'omaggio a un passato che lei non ha vissuto in prima persona ma al quale, anche per questo, si sente tanto più affettivamente legata.

Il culto per quel passato è anche il suo stesso passato. È Atreju, il biglietto da visita e insieme il cuore del dna della sua destra neomissina. È il piglio aggressivo con il quale, uscendo proprio dalla mostra/santuario ha assicurato che il Mes si voterà il prossimo 22 novembre e che lei non ha cambiato idea. A prenderla sul serio, come non va fatto perché sfruttando l'obbligo di discutere i decreti in conversione il voto sul Mes slitterà, significherebbe che intende bocciare apertamente la riforma del Mes silurandola contro l'intera Unione: una mossa da martire islamico fornito di cintura esplosiva.

Il problema è che quel passato a cui non vuol rinunciare è l'handicap che le impedisce di decollare. È uso comune tracciare una linea di demarcazione netta tra la leader e la sua inadeguata squadra ed è certo vero che tra i collaboratori il marchio della vecchia appartenenza di estrema destra appare spesso indelebile ma sarebbe un problema assai più limitato se non fosse che quel marchio Giorgia Meloni lo ha inciso dentro e non vuole o non sa sacrificarlo.

È su questa contraddizione che gioca il suo alleato/rivale, Matteo Salvini. Il leghista è da mesi alla ricerca di un ruolo, un tema, una campagna in grado allo stesso tempo di restituirgli ruolo politico e di mettere in difficoltà la premier. Ci ha provato con l'immigrazione, ma Meloni è stata pronta a reagire scippando il dossier sia al suo vicepremier che al ministro degli Interni Piantedosi, considerato troppo vicino alla Lega e al suo capo. Stavolta, sullo sciopero, la tolkieniana non ha potuto farlo. Che a lei come al ministro dell'Economia Giorgetti l'intemerata di Salvini sia andata di traverso è tanto certo quanto logico: lo sciopero sarebbe stato un evento minore se a montarlo e a renderlo un evento di enorme portata non fosse stato proprio Matteo Salvini. Senza contare il rischio, sino a due giorni fa inesistente, di un'esplosione di conflittualità sociale nel momento per il governo. Ma la premier decisionista non ha potuto fermare il suo vice perché altrimenti avrebbe dovuto sacrificare l'immagine bellicosa e tutta d'un pezzo a vantaggio di quella della leader politica capace al momento giusto di essere diplomatica.

A Giorgia Meloni il costume del Campo Hobbit va sempre più stretto ma allo stesso tempo è un feticcio che considera indispensabile. L'invito ad Atreju rivolto alla rivale più diretta, Elly Schlein, non era sorprendente. Non lo è neppure il rifiuto della leader del Pd: «Ci si confronta in Parlamento». Solo che la leader della destra avrebbe tutto da guadagnare se la segretaria del Pd, invitata al Festival, non potesse permettersi di rifiutare. Significherebbe l'uscita definitiva, a tutti i livelli, anche nell'immagine nazionale e internazionale, dal ghetto che volente o nolente è stata la destra radicale anche nelle sue manifestazioni più interessanti come appunto i Campi Hobbit. Ma per ora Giorgia Meloni preferisce restare nella Terra di Mezzo.