L’autonomia differenziata approderà nell'aula della Camera, per l'approvazione definitiva, il prossimo 21 maggio. Probabilmente non ce la farà a vedere la luce in tempo per le elezioni europee del 9 giugno. Gli emendamenti dell'opposizione sono circa 2 mila e il solo ad avere fretta è il papà della riforma, il ministro Calderoli. La premier invece preferisce evitare di arrivare alle urne fresca di due risse nelle aule parlamentari. Meglio rinviare di pochi giorni tanto più che quella riforma, in oltre mezza Italia, è il peggior viatico possibile per la prova del voto.

Questo timore della premier è noto e certamente giustificato. Se c'è una riforma impopolare nel Sud è quella di Calderoli. Ma proprio le comprensibili paure di Giorgia Meloni destano un interrogativo ineludibile: perché, a fronte di una riforma così radicale, tanto da arrivare molto vicina al progetto di dividere l'Italia in tre partorito una trentina d'anni e passa fa dal professor Miglio, il Pd resta sostanzialmente inerte e silenzioso. Basta fare un paragone col tam tam già sfrenato sul premierato per concludere che sull'autonomia il Pd farà certamente un bel po' di propaganda ma sul dare battaglia davvero ancora non è convinto.

Certo, il premierato sarà oggetto di ordalia referendaria. L'autonomia differenziata, non essendo legge costituzionale no. Ma i referendum non sono solo confermativi. Nella stragrande maggioranza dei casi, o meglio sempre salvo che nel caso delle riforme della Carta, sono abrogativi. Nulla osta a raccogliere le firme, e non ci vorrebbe molto, per abrogare la Calderoli. Non che si possa accusare il Pd di non averlo fatto: per chiedere di abrogare una legge bisogna che quella legge sia prima approvata. Ma il fatto che il tema sia circondato dal silenzio, che nessuno annunci in anticipo la scelta di ricorrere alle urne sembra indicare che il principale partito d'opposizione quella mossa estrema, però mai come in questo caso adeguata, non la ha ancora decisa e stenta a muovere quel passo.

Il perché è evidente: la legge della Lega è figlia legittima della riforma del Titolo V della Costituzione, imposta dal centrosinistra con pochissimi voti di scarto nelle ultime ore prima dello scioglimento della legislatura, nel 2001. Quella riforma, oltre a rappresentare il peggior precedente possibile nel metodo, è stata anche disastrosa nel merito. Ma il Pd non se la sente di ammetterlo e per azzannare l'autonomia leghista senza citare la riforma del Titolo V e la necessità di tornare indietro bisogna essere capaci di virtuosismi eccelsi.

Musica non proprio identica ma simile col Jobs Act. La leader lo ha trattato come una specie di coscienza accettando la libertà di voto. Ma la libertà di voto sulla politica sociale, come se fosse un caso di coscienza, è ridicola. Se a firmare il Jobs Act fosse stato un governo Berlusconi oggi non ci sarebbe problema. Invece lo varò Renzi, allora segretario del Pd, e dunque come si fa a schierare ufficialmente contro il partito che fu di Renzi e nel quale militano ancora moltissimi che quella legge contro i lavoratori la votarono e la applaudirono? Non che l'eredità avvelenata del rottamatore si limiti a questo. In Rai la premier si limita ad applicare la riforma voluta da Renzi. Bisognerebbe ammettere che quella riforma era disastrosa e sbagliata. Però non si può ed Elly in linea di massima se la cava sostenendo che bisogna liberare la Rai dai partiti. Il che in sé sarebbe anche giusto se non fosse fuori portata e non si rivelasse dunque come alzare il tiro per non dover mirare a un bersaglio forse più a portata di mano ma sul quale è incisa la firma del Pd.

La guerra è forse il capitolo più esplicativo. Per Schlein ma in realtà per tutto il suo gruppo dirigente paracadutato al Nazareno dopo la sua vittoria la posizione pacifista, cioè contraria all'uso delle armi, sarebbe fisiologica e probabilmente anche la più sincera. Se non fosse che il predecessore di Schlein, Enrico Letta, non si era limitato a schierarsi per le armi, come del resto tutti. Aveva sgomitato per apparire il più atlantista di tutti e c'era anche riuscito, alla pari con Giorgia Meloni. E dunque siamo alle solite o meglio “alle solite” sta il Pd. In fondo anche la riforma della giustizia non presenta un quadro troppo diverso. In privato sono legione gli esponenti del Pd che ammettono la necessità di un intervento radicale e molti quelli che non sarebbero neppure contrari per principio alla separazione delle carriere. Ma le mani sono legate da trent'anni passati a immedesimarsi sempre e comunque con i magistrati, con maggiore o minore convinzione a seconda delle fasi e dei singoli dirigenti. Nell'assenza di incisività che penalizza il Pd, insomma ha un peso non secondario l'ombra del passato. O meglio delle stratificazioni di diverse fasi del passato, spesso in contraddizione fra loro e quasi sempre col presente ma delle quali non ci si può liberare perché significherebbe fare i conti con i propri errori e renderebbe inevitabile dotarsi di una fisionomia politica non transitoria ed effimera ( nella migliore delle ipotesi) come è stata sinora quella del Pd. E come continua a essere nonostante Elly.