L'opposizione, con la segretaria del Pd in primissima fila, accusa la destra al governo di occupare voracemente tutto l'occupabile e in particolare di essersi lanciata all'arrembaggio di tutte le agenzie culturali. Non hanno torto il Pd e il M5S: il caso della nomina di Luca De Fusco a direttore generale del Teatro di Roma in una riunione del cda senza il presidente Francesco Siciliano e senza la consigliera indicata dal Comune di Roma, Natalia di Iorio, è solo l'ultimo di una serie già lunga anche se particolarmente sbrigativo, per non dire brutale, nel metodo. Un metodo denunciato pure da un esercito di artisti, capeggiato da Elio Germano e Matteo Garrone, sceso in campo contro la nomina.

La destra, con la premier a dir poco consenziente, accusa la sinistra di aver occupato nel corso del tempo tutti i gangli culturali del Paese. Non ha torto neppure Meloni: le agenzie culturali del Paese sono in effetti egemonizzate dalla cultura di centrosinistra, e non solo per via di occupazione manu militari. Che la strategia del Pci togliattiano prevedesse l'occupazione di quante più caselle possibile nella sfera della cultura è certo. Non che ci fosse bisogno di un grande sforzo però. Dopo la guerra la spinta verso sinistra era spontanea, fortissima e del tutto comprensibile. La destra era squalificata e l'intera cultura di destra, che pure schierava giganti come Heidegger, Schmitt e lo stesso Gentile, era oscurata dall'ombra del nazismo, del fascismo e dell'adesione di quei grandi intellettuali alle dittature di estrema destra.

L'argine all'avanzata della sinistra nelle agenzie culturali non era la destra ma la Dc, e faceva benissimo il proprio lavoro. Soprattutto in Rai, cioè nella principale agenzia culturale di massa, la presa dello Scudocrociato è rimasta salda sino a metà anni ' 70 e anche in seguito la lottizzazione delle reti lasciava buona parte delle leve di comando nelle mani del partito cattolico. Il quale tuttavia era tutt'altro che monolitico e schierava al proprio interno sensibilità anche profondamente diverse, tra le quali una visione culturale che, pur se non comunista, era senz'altro più vicina alla sinistra che non alla destra, del resto del tutto marginalizzata. In ogni caso, quello che oggi definiamo centrosinistra è erede di entrambe le aree che nella prima Repubblica si contendevano l'egemonia culturale: quella comunista e quella democristiano-cattolica.

Le cose non sono cambiate molto nella Seconda Repubblica. Walter Veltroni ha sempre mantenuto rapporti strettissimi con il mondo della cultura e dell'informazione e quel controllo soffice ma indiscutibile è stato una delle principali fonti del suo potere. Ma Berlusconi nel ventennio in cui è stato il perno della politica italiana ha fatto pochissimo per contrastare l'egemonia della sinistra in quella pur fondamentale sfera. Non era interessato, probabilmente in forza di quel doppio ruolo che in realtà ha contrassegnato l'intera epoca berlusconiana: leader di una fortissima coalizione politica e industriale con al centro dei propri interessi sempre e soprattutto le sorti di Mediaset. Berlusconi non mirava a occupare e neppure troppo a condizionare politicamente. L'importante era che su tutti i fronti, non solo quello politico ma anche quello della concorrenza aziendale, il biscione non fosse mai minacciato.

Giorgia Meloni è di un'altra pasta. A differenza del Cavaliere ha in mente un progetto politico, alimentato dal quel revanscismo che emerge ogni volta che parla, dalla convinzione che la destra sia stata emarginata per decenni. La sua destra, s'intende, quella almirantiana e missina, non quella centrista e democristiana nella quale invece Berlusconi poteva invece in buona parte riconoscersi. Ritiene che l'eclissi della cultura di destra sia conseguenza non di povertà culturale ma di una strategia politica tesa a chiudere quella cultura nel ghetto degli impresentabili. Dunque procede in coerenza con quella visione: occupando i posti chiave. Il suo problema è che, se esiste senza dubbio una grande cultura di destra che ha segnato il Novecento molto più di quanto non sia stato a lungo riconosciuto, di operatori culturali sul campo la destra è invece poverissima. Né potrebbe essere altrimenti in parte perché l'emarginazione c'è stata davvero, ma in parte perché la destra si era chiusa in un ghetto asfittico, spesso esoterico, traversato da quelle correnti di vittimismo e autocommiserazione così evidenti anche nella stessa Meloni. Così se in effetti la destra al governo procede per occupazioni e spesso senza avere i nomi più validi da proporre, la sinistra, dal canto suo, difende davvero una rendita di posizione più che la cultura in sé. La quale cultura italiana, già non nella sua fase migliore, da uno scontro giocato su questo piano ha solo tutto da perdere.