Più draghiana di Draghi: non per la prima e probabilmente neppure per l'ultima volta. La citazione del discorso dell'allora premier Draghi di fronte al Parlamento, nel luglio scorso, usata dal ministro Giorgetti per giustificare la ghigliottina calata sulla cessione del credito per il Superbonus non è stata solo un coup de theatre. Se avessero potuto parlare fuori dai denti Draghi e il suo ministro dell'Economia Franco avrebbero adoperato termini anche più pesanti dello «scellerato» usato da Giorgetti per bollare il Superbonus. In realtà lo facevano anche, sia pure a porte chiuse. Ma in un governo del quale facevano parte, come prima forza di maggioranza, i 5S non erano in grado di intervenire come avrebbero voluto. Giorgia lo ha fatto e con una drasticità dettata in tutta evidenza da circostanze gravi. Il governo si è trovato di fronte alla concreta possibilità di una voragine nei conti pubblici e la stessa considerazione ha imposto anche la norma forse più dolorosa: il divieto per gli enti locali e le Regioni di farsi carico dei crediti.

Non è certamente una scelta che il governo ha fatto a cuor leggero. A deciderla è stato il ministro dell'Economia e dal letto in cui giace influenzata la premier ha dato il suo assenso perché i conti squadernati da Giorgetti non lasciavano molte alternative. Il costo rischia di essere altissimo, forse non il classico rimedio peggiore del male ma neppure molto migliore. Il Pd valuta a rischio di chiusura 25mila imprese, 90mila cantieri, decine di migliaia di posti di lavoro. Anche a fare la tara il contraccolpo sarà pesante: con tutti i suoi limiti, dovuti a una legge scritta con indubbia superficialità e implementata peggio, il Superbonus è stato un elemento essenziale nella crescita record del 2021 e nei risultati molto migliori del previsto, nonostante la guerra del 2022. L'eventualità di “buttare il bambino con l'acqua sporca” è realistica e concreta.

Il governo rischia anche su altri due fronti nevralgici: quello del consenso e quello della tenuta interna. Le misure draconiane della premier e di Giorgetti incidono direttamente sulle tasche degli elettori, e si sa che nulla incide più di questo sugli umori dell'elettorato. L'eliminazione del rdc, la fine del taglio delle accise sui carburanti, ora lo stop alla cessione dei crediti d'imposta e degli sconti in fattura sul superbonus sono tutte scelte che finiscono per impoverire le fasce deboli o medie mentre salvano quelle più facoltose. Quanto alla maggioranza, se anche non deve fare i conti con un ostacolo inaggirabile come era la presenza del M5S per Draghi, comunque la premier deve vedersela con una Forza Italia che nei mesi scorsi aveva puntato i piedi proprio per limitare il ridimensionamento del Superbonus e con la Lega, pur calmierata dal ruolo decisivo di Giorgetti nella scelta, le cose non stanno molto diversamente.

Il governo cercherà già nei prossimi giorni di individuare una soluzione per evitare almeno il peggio e l'impennarsi o meno delle tensioni interne dipenderà in larga misura dalla capacità, o forse dalla possibilità, di individuare una rete di protezione. Ma recuperare per intero il danno appare una chimera.

La vicenda mette in luce il vicolo cieco nel quale è costretta a muoversi la premier. La scelta elogiata ad alta voce da Letta e da Bonaccini, quella di adeguarsi senza riserve al dettato

rigorista della Ue, non è un passo a costo zero. La priorità assoluta della difesa dei conti pubblici impone scelte che vanno puntualmente in direzione opposta rispetto alle promesse fatte agli elettori: non è certo un caso che per sferrare la mazzata sulla cessione dei crediti il governo abbia aspettato la chiusura delle urne in Lazio e Lombardia, in modo da aver di fronte una lunga fase senza test elettorali. A Giorgia Meloni, inoltre, viene richiesto dalla Ue drasticità maggiore di quella che veniva pretesa da Draghi, che pure si muoveva nella stessa direzione. Il rigore, per un governo a tutt'oggi sospetto e poco gradito in Europa, non basta. Ci vuole

l'austerità. Quanto potrà durare la luna di miele tra gli elettori

e un governo che, partito dalla critica del rigore è già approdato alle sponde di politiche austere, è il punto interrogativo da cui dipendono il futuro del governo, della maggioranza e della stessa Giorgia Meloni.