Tutto si può dire di Silvio Berlusconi tranne che sottovalutarne l'importanza storica. Non è stato solo il perno del sistema politico italiano per una ventina d'anni e prima ancora l'imprenditore che, con le sue televisioni, aveva plasmato più di ogni altro il gusto degli italiani, il loro modo di guardare a se stessi e al loro Paese, al punto quasi da creare e costruire, molto prima di “scendere in campo”, il suo futuro elettorato.

Berlusconi è stato tutto questo ma anche molto di più: è stato l'autobiografia della nazione, per riprendere la celebre definizione che del fascismo diede Piero Gobetti, l'arciitaliano nel quale ognuno poteva riconoscersi. Anche gli avversari che, non a caso, finirono prestissimo per tallonarlo, imitarne lo stile comunicativo, identificarsi in negativo usandolo come unità di misura: il berlusconismo e l’antiberlusconismo, la coppia gemella che ha segnato e modificato radicalmente il rapporto degli italiani con la politica.

Capitano d'industria, leader politico, comunicatore naturale, Berlusconi è stato prima di tutto un grandissimo venditore: per questo identificare le linee guida della sua visione politica è come cercare di afferrare il mercurio. Con l'istinto naturale di chi è nato per vendere e con un'empatia con la pancia del Paese sconosciuta alla stragrande maggioranza dei politici di ogni colore, modificava il prodotto e la conseguente campagna pubblicitaria a seconda delle circostanze, degli umori che avvertiva a pelle, mediati solo con la convenienza politica e spesso personale. Come imprenditore era stato il simbolo stesso del craxismo, dell'imprenditoria rampante e sfrontata degli anni '80. Quando gli toccò fare politica in prima persona, dopo l'imprevisto terremoto che aveva raso al suolo la prima Repubblica, sembrava davvero la figura meno adeguata, una pezzo fondamentale del passato che era stato appena travolto, l'amico leale sino all'ultimo del leader simbolo di tangentopoli, Bettino Craxi.

Berlusconi rovesciò i pronostici perché seppe presentarsi, proprio lui, come alfiere del nuovo, campione della rivoluzione liberale ma allo stesso il solo in grado di offrire una sponda all'elettorato rimasto orfano dei partiti della Prima Repubblica e un riparo al loro personale politico. Vinse e durò poco, perse nel 1996 perché in quell'unica occasione non riuscì a unificare le diverse anime della destra, essendosi perso per strada la Lega. Durante quella che lui stesso definì “la traversata del deserto”, Berlusconi cambiò pelle al suo partito, si liberò del “partito liberale di massa” finito rapidamente fuori mercato, si presentò come reincarnazione della Dc, non di quella che aveva al proprio interno di tutto da Andreotti a Donat-Cattin, ma di quella del 1948, la Dc del “nella cabina elettorale dio ti vede Stalin no”, un'operazione che era insieme politica e di mercato, capace di sfruttare l'eterna paura italiana della sinistra ma anche la nostalgia per un passato ormai mitico.

Il capolavoro della sua vita politica resterà la campagna elettorale del 2006, quella in cui, di nuovo, i bookmakers lo davano 10 a 1 e i suoi stessi compagni di coalizione e di partito ne parlavano come di una specie di picchiatello: «Ancora ci crede». Ci credeva solo lui in effetti e l'intera campagna gravò solo sulle spalle sue e della carta che sapeva essere vincente agli occhi degli italiani: le tasse. Costrinse il super favorito Prodi a una vittoria di misura che lo portò al governo, in condizioni disperate, per appena 20 mesi.

Il cavaliere giocava sulla complicità. Probabilmente nessuno credeva che avrebbe davvero abbassato vertiginosamente le tasse. Però di certo non le avrebbe aumentate e comunque con lui al governo era lecito aspettarsi che lo Stato chiudesse un occhio. Berlusconi mentiva spudoratamente e non era certo l'unico politico a farlo. In compenso era il solo che non volesse essere creduto. Le sue bugie plateali, su tutte la versione boccaccesca della Ruby nipote di Mubarak, erano in realtà una strizzata d'occhio, dispiegava quel “negare anche di fronte all'evidenza” al quale avrebbero fatto ricorso, in circostanze analoghe, i suoi potenziali elettori.

Berlusconi è stato paladino del maggioritario e proporzionalista, euroscettico e iper-europeista, securitario e garantista: gli spostamenti non turbavano i suoi elettori perché il rapporto fiduciario tra il leader e la sua gente era di carattere personale, non politico. La garanzia era lui, non il cangiante progetto e a guardare bene in quella garanzia un punto fermo mai dichiarato c'era, vera pietra angolare della complicità tra il Cavaliere e il suo elettorato: la diffidenza nei confronti dello Stato, l'eterna tendenza di una parte enorme della società italiana a guardare con diffidenza e ostilità lo Stato.

Il rivoluzionario liberale, il neodemocristiano, l'anticomunista senza più comunismo, il premier che aveva inventato una via berlusconiana alla diplomazia, fatta di “lettoni di Putin”, coreografie gheddafiane da kolossal hollywoodiano, inviti in villa ai massimi livelli, avevano tutti in comune la stessa promessa: limitare il ruolo dello Stato, tenerlo lontano dalla vita delle persone. Un laissez-faire all'italiana che era quanto di più desiderabile per gli italiani come per lui stesso.

In questa visione l'autoritarismo non aveva spazio. Berlusconi era democratico tanto per indole quanto per convinzione. Dipingerlo come “il cavaliere nero” che attentava alla democrazia è stato uno dei grandi errori dell'antiberlusconismo, in definitiva più utile che dannoso ai fini di una longevità politica che ha avuto la meglio persino sulle decine di processi, sulla condanna, sulla umiliante cacciata del Senato.

La destra di Silvio Berlusconi è stata una destra democratica, per quante responsabilità anche pesanti si possano rinfacciare all'uomo e al leader. Si sa che non lascia nessun erede in grado di reggere un partito, Forza Italia, che si identificava solo con lui. Si vedrà presto se la nuova destra, quella di cui è stato fondatore, saprà restare altrettanto sinceramente democratrica.