Due giorni fa il ministro della Giustizia Carlo Nordio, al question time, ha rassicurato chi lo interrogava sulla sua ferma volontà di andare avanti sulla strada della separazione delle carriere tra giudici e pm. Il suo intervento è apparso tanto più significativo quanto giunto in un momento di oggettivo stallo parlamentare, in cui l'iter delle varie proposte che convergono sul tema ha subito una serie di stop and go che hanno fatto dubitare più di un parlamentare sulla reale volontà dell'esecutivo di fare sul serio. Il nodo principale, infatti, sono le priorità che Palazzo Chigi ha stabilito per le riforme da portare a termine nella legislatura. Come è noto, quando Giorgia Meloni definisce «madre di tutte le riforme» il premierato, resta poco da aggiungere per comprendere cosa ci sia in cima ai pensieri della presidente del Consiglio.

Un'affermazione perentoria, che per una serie di motivi non lascia molto spazio all'ottimismo per quanti fremono per la separazione delle carriere. Vediamo perché: anzitutto, dal cerchio magico meloniano è più volte fatta filtrare la convinzione che una legislatura possa “reggere” al massimo una grande riforma costituzionale. Questo non perché la Carta o i regolamenti impediscano di approvare più di un ddl costituzionale per legislatura, ma perché la particolarità dell'iter, con tempi d'esame raddoppiati e l'incognita di un referendum confermativo in genere obbligano a concentrarsi su una riforma. Stiamo parlando di riforme costituzionali di portata vasta, di quelle che di norma vengono annunciate da una coalizione risultata vincente alle elezioni come obiettivo qualificante del proprio programma di governo, e che come tali non sono bipartisan.

Per intenderci, l'abolizione della pena di morte o l'inserimento dello sport in Costituzione, pur seguendo formalmente l'iter prescritto per ogni modifica costituzionale, non fanno testo. Iter che - ricordiamolo - prevede la doppia approvazione dello stesso testo sia alla Camera che al Senato, con un intervallo minimo di tre mesi tra una lettura e l'altra. Se alla seconda lettura l'approvazione non arriva col voto favorevole dei due terzi degli aventi diritto, il testo può essere sottoposto a referendum per iniziativa di almeno un quinto dei membri di una Camera o cinquecentomila elettori o cinque Consigli regionali.

Le statistiche sono fatte per essere smentite o aggiornate, ma se scorriamo i precedenti tentativi di riforma costituzionale, risulta evidente che questi hanno occupato interamente la scena, non andando mai in parallelo con altri testi della stessa natura. Qualcuno potrebbe obiettare che attualmente, oltre al premierato, in Parlamento è sotto esame l'altra grande riforma annunciata dalla maggioranza (sponda leghista), e cioè l'autonomia differenziata per le regioni a statuto ordinario, ma la coesistenza tra le due è facilitata - almeno a livello regolamentare - dal fatto che nel secondo caso si tratta di un ddl ordinario che potrà quindi essere approvato come qualsiasi altra legge. Si diceva le statistiche: ebbene, se le cose dovessero andare come sono sempre andate finora, a un certo punto Giorgia Meloni si troverebbe a dover scegliere tra riforma A e riforma B.

Nella storia repubblicana, infatti, nessuna legislatura ha ospitato più di una riforma costituzionale, e quelle approvate dal parlamento sono andate tutte al vaglio dei referendum. Nel 2001, la XIII legislatura culminò con l'approvazione, da parte del centrosinistra, della riforma del Titolo V, poi avallata dal referendum ad ottobre dello stesso anno. La legislatura successiva è interessante poiché presenta analogie con l'attuale: l'allora premier Silvio Berlusconi annunciò sia una grande riforma dell'architettura dello Stato che la separazione delle carriere, ma solo la prima arrivò ad approvazione, mentre il Guardasigilli Roberto Castelli dovette optare per una legge delega che rendeva più difficili i passaggi dei magistrati da una funzione all'altra e fu smantellata dopo il ritorno a Palazzo Chigi del centrosinistra. Anche la riforma dello Stato, poi, fu affossata dal referendum confermativo del 2006. Con l'arrivo di maggioranze più risicate e di governi guidati da tecnici, negli anni successivi è risultato più difficile annunciare riforme costituzionali, fino a quella portata ad approvazione da Matteo Renzi nel 2016, bocciata anch'essa in sede referendaria, visto che in Parlamento non aveva ottenuto la maggioranza qualificata dei due terzi. Che sulla carta non ha nemmeno l'attuale ddl sul premierato, che dunque dovrà fare i conti anch'esso col vaglio popolare. Curiosamente, un ddl costituzionale sulla separazione delle carriere avrebbe più possibilità di farcela, evitando il referendum: allo stato, se il Terzo Polo votasse col centrodestra mancherebbero una manciata di voti.