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IMAGOECONOMICA
Non è vero che sarà la riforma di Silvio Berlusconi. Sempre se completerà il percorso a ostacoli, la separazione delle carriere dovrebbe aspirare ad altro. Non a disarmare un pericoloso nemico ma a rimettere ordine.
A due anni dalla scomparsa del Cavaliere, del leader che ha inventato il centrodestra italiano e sconvolto per sempre il rapporto fra comunicazione e politica, non solo in Italia, si leggono tweet di parlamentari ed esponenti di governo azzurri sospesi fra nostalgia e giuramento di vendetta. Nel partito di Antonio Tajani aleggia, com’è anche logico, la tensione per una riforma della magistratura immaginata anche come tributo al capo scomparso. Certo, è fuori discussione il rapporto controverso che l’ordine giudiziario, l’Anm, alcune Procure in particolare hanno avuto con Berlusconi. Ma anche se la mostruosa macchina da guerra schierata per un paio di decenni contro il Cav è ancora troppo poco storicizzata perché se ne percepisca davvero l’anomalia, la separazione delle carriere dev’essere qualcos’altro. Non una vendetta. Non un regolamento di conti. Ma l’affermazione di una supremazia, da parte del potere che rappresenta la sovranità popolare, ossia il Parlamento, nell’architettura della Repubblica.
Con il divorzio fra giudici e pm, e le altre modifiche contenute nel ddl Nordio, si spera di veder realizzato un riequilibrio dell’ordine giudiziario, un superamento della militanza politica, della funzione anomala assunta, e assolta, dai magistrati a partire da Mani pulite. Non significa tagliare le unghie a qualcuno, ma riportare le istituzioni nella loro giusta dimensione: la magistratura è anche un ordine deputato al cosiddetto controllo di legalità, ma rispetto alle condotte dei singoli, non ai fenomeni, o addirittura agli altri poteri, cioè alla politica. E la politica deve dimostrare di aver ritrovato dignità e consapevolezza di sé. Deve saper essere all’altezza del ruolo, della supremazia appunto, che la Costituzione riconosce al Parlamento in quanto depositario della sovranità popolare. Il legislatore, il Parlamento innanzitutto, deve assumersi la responsabilità di ristrutturare il rapporto tra i poteri. Non deve disarmare la magistratura, ma semplicemente spezzare il corto circuito fra degenerazioni correntizie e politicizzazione. Un groviglio in cui il condizionamento sulle nomine e sulle carriere, in particolare dei giudici da parte dei politicamente più attivi – nell’Anm e quindi al Csm – pubblici ministeri, altera oggettivamente la qualità della democrazia.
E naturalmente, risistemare ruoli e procedure nell’ordine giudiziario avrà, dovrebbe avere, soprattutto il fine ultimo e la forza di restituire ai cittadini fiducia nel processo penale. Sembrerebbe, secondo una lettura più “essenziale”, l’unico vero obiettivo della riforma, ma non è proprio così. Perché riportare fra i cittadini quella fiducia che, anche per i magistrati, resta in caduta verticale, equivale anche a un grande passo avanti nel recupero della coesione fra istituzioni e società.
Il resto dovrà farlo la politica, con uno scatto d’orgoglio, anche in termini di selezione della classe dirigente. Ma da qualcosa si deve pur partire. E se il processo ridiventa un luogo sacro in cui il cittadino si fida, si sente al sicuro, o sa almeno di essere tutelato dalla effettività delle garanzie, se del processo si percepisse finalmente l’equilibrio fra accusa e difesa dinanzi a un giudice terzo, forse si favorirà anche un riavvicinamento degli italiani alle istituzioni. Se c’è un traguardo a cui i partiti dovrebbero guardare, è la rinascita, tra i cittadini, di un interesse diffuso per la politica. Perché la sovranità popolare oggi è malata, è in tilt. E restituirle effettività anche a partire dal giusto processo è un’impresa a cui forse il Berlusconi sommerso dalle indagini non ha avuto neppure il tempo di pensare.