Il fondatore e capo dell’M5S ha ragione quando dice che gli avversari e tutto il tripudiante coro della grande stampa stanno vendendo la pelle del Grillo prima di averlo ucciso. Per il de profundis intonato alle esequie delle 5 stelle è presto. In parte proprio per i motivi che adduce nel blog lo stesso Beppe, segnalando che «la maggior parte delle città sono state conquistate da ammucchiate di liste civiche, fatte ad hoc per accaparrarsi voti nascondendo il vero volto dei partiti». In effetti la scelta di mimetizzarsi quanto più possibile si è rivelata per il Pd astuta per due diversi motivi.

Il primo è la compiuta impossibilità di contare i voti raccolti dal partitone e quindi di valutare le dimensioni reali dei suoi consensi. La seconda, forse non voluta ma anche più efficace, è l’aver tolto al movimento di Grillo, che è per definizione un movimento ' contro', un nemico ben definito, un partito apertamente in campo contro il quale votare.

Ci sono però altre ragioni che consigliano di rinviare le gioiose condoglianze. Il voto di domenica è in realtà rappresentativo sino a un certo punto. Nelle piazze principali, come Genova, Palermo e Parma, i 5S partivano penalizzati in partenza dai loro stessi macroscopici errori, dal pasticcio delle candidature liguri, dalle firme di Palermo, dalla folle scomunica di Pizzarotti. Infine, in un clima senza precedenti di volatilità del voto, M5S sconta una tendenza opposta a quella del 2016, favorevole alle forze antisistema. In tutta Europa il vento tira in direzione contraria, probabilmente proprio in seguito alle votazioni shock del 2016.

In ogni caso la battuta d’arresto c’è stata davvero, e si spiega soprattutto con la serie di sbagli infilati uno dopo l’altro dai 5S dopo il trionfo alle comunali 2016. Di questa serie nera fanno parte anche gli strafalcioni di Genova e Palermo ma gli incidenti peggiori sono stati altri: il fallimento, per ora, di Virginia Raggi a Roma e il disastro dell’accordo sulla legge elettorale.

In ballo, nella partita della legge elettorale, non c’era solo la definizione di norme più o meno favorevoli per la ripartizione dei seggi. Si trattava di completare e rendere ufficiale il salto da movimento di protesta a forza istituzionale, sia pu- re sui generis. In alternativa, il Movimento avrebbe potuto difendere la propria purezza sottraendosi, come fece nel 2013, a ogni dialogo. In entrambi i casi sarebbe uscito bene dalla vicenda. Ha imboccato la strada peggiore: quella dell’oscillazione.

Però l’impossibilità di assumere una linea decisa e poi mantenere la barra dritta fino all’ultimo non è conseguenza della co esistenza di due opzioni strategiche opposte. Ad affossare la manovra politica allestita intorno alla legge elettorale è stato il confronto tra due bande interne. Lo stesso quadro si era presentato, un anno fa, a Roma. Era lecito aspettarsi che, conquistata la capitale, il Movimento avrebbe messo la sordina alle rivalità interne per fare blocco a sostegno di un esperimento dalla cui riuscita dipendevano in buona misura le fortune nazionali del Movimento stesso. E’ andata al contrario.

Nei primi e fondamentali tre mesi, la sindaca di Roma è stata impegnata soprattutto a fronteggiare attacchi che partivano dall’interno dell’M5S romano, con la zarina locale, Roberta Lombardi, impegnata ben più attivamente dello sconfitto Giachetti nel silurare ' la nemica'. L’inguaribile e suicida rissosità delle bande a cinque stelle rinvia a propria volta a nodo ancor più aggrovigliato: quello della guida. Un movimento destrutturato per definizione come quello di Grillo necessita di una regia salda ancor più delle forze politiche ' normali'.

Questa regia c’è stata sino a che è stato vivo Gianroberto Casaleggio, che dell’M5S era a tutti gli effetti il timoniere anche se il frontman era un altro. Quel ruolo, che era fondamentale nella sua discrezione tanto quanto quello plateale dell’ex comico, è di fatto vacante da oltre un anno. Sarà un caso che proprio in quest’anno la guerra per bande sia divampata sin quasi a bruciare la casa comune?