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La parola magica, “antifascismo”, nella lunga lettera di Giorgia Meloni al Corriere della Sera sul e per il 25 aprile non compare. La premier non la ha voluta dare vinta a quanti reclamavano quella paroletta. Tuttavia non si può dire che il quotidiano di via Solferino abbia travisato o forzato la realtà inserendo la parola della discordia nel titolo. Se manca il nome, la cosa in effetti c'è tutta anche se la scelta di evitare una formula che implica la discontinuità non solo con il fascismo e Mussolini ma anche con il Msi e Almirante è significativa.
La lettera di Giorgia Meloni è abile e politicamente incisiva. La leader di Fratelli d’Italia sottolinea certo anche le epurazioni dopo il 25 aprile e le stragi in Dalmazia: è da sempre un cavallo di battaglia della destra e il capo della destra italiana non avrebbe potuto evitarlo. Ma la lettera evita con cura l'accusa di “parificazione” tra gli opposti totalitarismi, alla quale si prestava il discorso alle Camere con cui Meloni chiese la fiducia e si è prestata la doppia visita di La Russa a Therensistad e alla statua di Jan Palach.
Le citazioni sono importanti: Togliatti e Violante, Augusto Del Noce, ma anche la svolta di Fiuggi, pur senza nominare Fini ma rivendicando in compenso piena continuità con quella scelta, e il discorso “partigiano” di Berlusconi a Onna nel 2009. L'omaggio alla quasi centenaria ex partigiana bianca della Brigata Osoppo Paola Del Din è un colpo di teatro, ma efficace.
Nel complesso Giorgia Meloni ha cercato non solo di parare le accuse di ambiguità nei confronti del fascismo, come tutti si aspettavano che facesse, ma anche di giocare in contropiede sfruttando lo stesso impeto della campagna che denunciava quelle ambiguità per passare all'offensiva. Se obiettivo della Costituzione, dell'amnistia voluta dal segretario del Pci, del presidente della Camera Violante era la riconciliazione, la cicatrizzazione delle ferite profondissime lasciate da vent'anni di dittatura e poi da una guerra civile, non è contro lo spirito stesso dei padri costituenti brandire ancora quelle divisioni e usarle come arma politica nell'agone di oggi, a distanza di 80 anni? E ancora: se quello era l'intento di Palmiro Togliatti e della Dc, non va riconosciuto agli antenati politici della premier, ai fondatori del Msi e soprattutto a Giorgio Almirante, il merito di aver remato, partendo dalla sponda opposta, nella stessa direzione inserendo la destra radicale in un sistema democratico del quale accettava e accetta i presupposti fondamentali?
Il coro di ministri e dirigenti di tutti e tre i partiti della destra al governo è troppo folto, troppo unanime e troppo ben intonato per non rispondere a un preciso ordine di scuderia. L'obiettivo è trasformare il 25 aprile da festa dei vincitori a celebrazione della riconquistata unità nazionale, da giornata inevitabilmente segnata dal ricordo di una divisione tanto lacerante quanto una guerra civile a celebrazione della ritrovata pacificazione. Il prezzo da pagare è ammettere senza infingimenti o ambiguità che le due parti belligeranti non erano sullo stesso piano, che i valori dei vincitori, pur con ombre e zone oscure, sono quelli oggi condivisi anche dalla destra e quelli di chi fu sconfitto sono invece giustamente al bando. Quel prezzo Giorgia Meloni, e con lei buona parte dei dirigenti di FdI per non parlare di Lega e Fi, forze politiche per cui lo strappo è assai meno sofferto, ha accettato di pagarlo, pur senza spingersi sino a rinnegare il Msi e anzi cogliendo l'occasione per esaltarlo ancora una volta. Ma come vettore di democratizzazione, non come erede del regime.
È probabile che la controffensiva abile e strategicamente ben ideata non solo di Giorgia Meloni ma dell'intera destra italiana abbia successo. Per il solo fatto che, una volta chiarito che sui fondamentali non esiste reale divaricazione, gli elettori stessi sono probabilmente stanchi di quella lacerazione e la considerano finalizzata soprattutto alla propaganda nel presente. Potrebbe essere un bene per tutti, a patto di non adoperare la pacificazione per veicolare valori forse non fascisti ma incompatibili con lo spirito della Costituzione. E certo non è un caso che proprio su questo aspetto abbia tanto insistito il presidente Mattarella.