L'autunno è un'occasione per Elly Schlein: si augura che sarà socialmente rovente e su questo ha scommesso. Ma l'autunno sarà anche un rischio per la segretaria del Pd: soprattutto se si rivelerà davvero incandescente. L' “estate militante” nel concreto si è ridotta a poca cosa: una raccolta di firme con risultati più che soddisfacenti, qualche apparizione della leader in giro per le feste dell'Unità. Sarebbe però un errore concludere che, avendo il Pd militato ben poco, la campagna estiva di Elly sia stata poco significativa. In realtà la segretaria del Pd ha sfruttato mediaticamente la stagione dei bagni e delle vacanze per provare a modificare in profondità l'immagine del suo partito. Date storia, biografia e cultura molti si aspettavano che proseguisse sulla strada imboccata già da molto tempo, una difesa strenua e rumorosa dei diritti civili e una distrazione malcelata dietro le dichiarazioni di rito nei confronti dei diritti sociali.

L'outsider arrivata contro ogni previsione al comando ha capito che, confermando quell'identità politica e puntando solo su una “pregiudiziale antifascista” che in tutta evidenza non funziona più, si sarebbe condannata a restare “il partito delle Ztl” e avrebbe perso ogni possibilità di recuperare l'alleanza con i 5S, senza la quale anche nelle prossime elezioni politiche non ci sarà partita. Si può obiettare che nella sostanza la svolta è ancora timida ma in termini d'immagine si è trattato invece di una sterzata drastica, confermata dalle recenti dichiarazioni sull'appoggio al referendum della Cgil contro il Jobs Act.

Proprio i malumori dilaganti che quelle dichiarazioni hanno provocato nel Pd, e non solo nella minoranza ma tra gli stessi sostenitori della segretaria, indicano chiaramente le difficoltà e i pericoli che aspettano Elly al varco dell'autunno. Le giustificazioni ufficiali dei dissensi non sono irragionevoli. Il Jobs Act è una legge di Renzi ma votata dall'intero Pd con pochissime eccezioni: un partito che sostiene a spada tratta il referendum contro una propria legge, per quanto lecito sia cambiare idea, offre il fianco a un vero e proprio massacro mediatico. La sostanza è altrettanto discutibile: il Jobs Act è una legge delega, abolirla in blocco vorrebbe dire eliminare anche alcuni elementi positivi e necessari che invece ci sono.

Ma, pur se non infondate, queste obiezioni sono soprattutto alibi. Il dissenso è politico ed è sintomo dell'inquietudine con cui il corpaccione del partito accoglie quella che inizia a sembrare non una correzione limitata di rotta ma una drastica inversione di marcia. Nel merito dell'impostazione politica ma anche nella strategia delle alleanze: su quel piano Conte e soprattutto Landini si muovono con un agio che a Elly Schlein è impedito dalla presenza di una minoranza in realtà molto forte. Il rischio paventato è che il Pd si ritrovi primo partito in una coalizione nella quale la linea però è data dagli alleati e da una forza esterna come la Cgil.

La manovra è da questo punto di vista particolarmente delicata. A Cernobbio Giorgetti ha detto, non per la prima volta, due cose che, messe insieme, sono esaustive: «Faremo una legge di bilancio prudente» e «devo prendere decisioni coraggiose». Il coraggio di essere cautissimi consiste nello scontentare una fascia di elettorato anche di destra molto vasta in nome del rigore e della difesa dei conti pubblici costi quel che costi. Per Conte e per Landini bersagliare la «scelta coraggiosa» è facile. Per il Pd, invece, denunciare una politica rigorista e austera dettata dai parametri europei è impossibile. Mentre Conte accusa Meloni di essersi inchinata «all'austerità con il cappello in mano», il responsabile dell'Economia del Pd Misiani cerca di cavarsela chiedendo al governo di allocare diversamente le risorse a disposizione. Il che può anche essere giusto ma è un problema minore, quello maggiore essendo la scarsità austera di quelle risorse.

La crociata del ministro dell'Economia e del governo contro il Superbonus è un terreno altrettanto malfido. Il Pd, ai tempi del governo giallorosso, lo aveva accettato in nome della allora vicinissima alleanza elettorale con il partito di Conte e per lo stesso motivo lo aveva difeso dall'impeto del governo Draghi- Franco, che in materia di Superbonus la pensavano come Giorgetti ma non avevano la sua stessa libertà di movimento. Certo, il Pd può rivendicare i vantaggi per l'economia e l'occupazione di quella misura pur costosissima per i conti pubblici. Ma alla fine dei conti non può difenderla a spada tratta come il M5S.

La linea adottata dalla segretaria impone dunque, nell'autunno austero, una contrapposizione frontale al governo su posizioni quasi indistinguibili da quelle di Conte e di Landini. Il guaio è che quelle posizioni, per una buona metà del suo partito, sono più o meno inaccettabili e dall'esterno Renzi, che ieri ha presentato la sua nuova formazione “Il Centro” guardando molto più alla potenziale deflagrazione del Pd, soffia sul fuoco. In nome delle europee imminenti tutti faranno il possibile per nascondere le divisioni. Ma qualcosa, e forse molto, invece emergerà.