Credere che nel mirino di Giorgia Meloni ci fosse il Pd è un po' dura da credere. La frase che tutti avevano interpretato come attacco a Mario Draghi la si può applicare al partito oggi guidato da Elly Schlein solo con una vertiginosa serie di passaggi azzardati e comunque incomprensibili a botta calda e anche tiepida. Ma è probabilmente vero che la premier non voleva prendere di mira Draghi ma piuttosto un'intera classe politica di centrosinistra a suo parere esageratamente sbilanciata a favore dell'asse franco- tedesco e di conseguenza spesso davvero pronta a ingoiare moltissimo, quando i due Paesi guida concordano, pur di non trovarsi isolata. La sua rissosa replica alla Camera, due giorni fa, girava tutta intorno a quel tema: il rischio, che lei assicura di non temere, di un'Italia che, da sola, blocca la riforma del Patto di Stabilità come sta già facendo con il Mes. Ma l'esempio a disposizione coinvolgeva Draghi e le è un po scappato il piede sulla frizione.

La corsa per recuperare, si sa, è stata immediata e trafelata: prima il comunicato informale di Chigi che spiegava la concatenazione di pensieri che dal treno in viaggio per Kiev con dentro Scholz, Macron e Draghi porterebbe a Elly Schlein, poi la telefonata riparatrice con il presunto offeso, pare finita in conciliazione piena anche perché si sa che l'ex premier per la donna che lo ha sostituito ha un debole, infine il chiarimento ufficiale, ieri al Senato: «Lungi da me criticare Draghi come è stato scritto».

Tutto probabilmente vero ma il sospetto che la gaffe riveli una preoccupazione che attanaglia la premier e che riguarda invece proprio il suo predecessore a Chigi è proprio inevitabile. E non si tratterebbe neppure di cruccio infondato: il nome illustre è stato infatti chiamato in causa, probabilmente senza consultare il diretto interessato, come una palla da bowling da tirare proprio tra i piedi della presidente del Consiglio, e incidentalmente anche di una parte sostanziosa del Ppe a partire dal suo presidente Manfred Weber.

La prospettiva, anche se ancora a distanza dalle elezioni europee, appare abbastanza nitida: evitare una svolta a destra delle istituzioni dell'Unione sarà molto difficile. I sondaggi danno il Pse in calo secco e l'estrema destra del gruppo Identità e Democrazia, i sovranisti anti Ue tra cui figura Salvini, in ascesa altrettanto netta. Se anche fosse possibile, a norma di pallottoliere, replicare l'attuale maggioranza Ursula il prezzo sarebbe inevitabilmente un riavvicinamento tra le due destra, i Conservatori di Meloni e della spagnola Vox (peraltro nei contenuti indistinguibile dagli “identitari”), e i sovranisti di LePen, Salvini e dell'AfD. Un'opposizione così numerosa e agguerrita è quanto di più distante dai desideri di Weber e dalla leadership del Ppe.

Le alternative sono due: una secca svolta a destra con la creazione di una maggioranza Ppe-Conservatori-Liberali, che oggi però pare irrealizzabile proprio in termini di voti, oppure un allargamento della maggioranza Ursula ai Conservatori che sposterebbe l'asse drasticamente verso destra e che almeno Meloni non è affatto decisa, se del caso, a rifiutare. In una maggioranza di quel genere il ruolo scomodissimo della foglia di fico toccherebbe in realtà al Pse, non ai Conservatori.

Il nome di Draghi, nonostante l'immediata smentita del diretto interessato, serve a ostacolare questa manovra. Certo, il Ppe non tornerà indietro dalla decisione di candidare in gennaio von der Leyen alla successione di se stessa. Ancor più certamente l'ex presidente della Bce non si esporrà mai apertamente, a maggior ragione dopo la scottatura nell'elezione del capo dello Stato in Italia. Ma se dalle urne del 9 giugno non uscisse un quadro governabile, se nessuna soluzione politica apparisse a portata di mano guardare a Draghi sarebbe quasi automatico. Non è un caso che l'idea sia stata partorita in Italia: corrisponde alla dinamica grazie alla quale sono stati insediati da noi i governi tecnici. Si tratterebbe insomma di una vera e propria “soluzione all'italiana” per l'Europa.

Meloni è cosciente del rischio e la gaffe di martedì scorso, che forse era soprattutto un lapsus, quasi lo rivela. Non che la manovra Draghi sia facile però, anche ammesso che l'ex premier si presti tacitamente e non è detto. In compenso è probabile che proprio l'Italia sia dia da fare per spingere Draghi verso un'altra e più consona candidatura: quella a presidente del Consiglio europeo. Anche perché, in quel ruolo, Draghi potrebbe avere ancor più peso che come presidente della Commissione.