«Weekend lungo e rivoluzione non stanno bene insieme». Una staffilata diretta alla sinistra e ai sindacati è il segnale che dopo la vittoria nelle Marche, Giorgia Meloni non rallenta. Anzi, accelera. La premier sceglie la via dello scontro frontale con il campo largo e la Cgil, inaugurando il secondo weekend elettorale consecutivo con un attacco diretto contro lo sciopero generale indetto in solidarietà alla Flotilla. Un’iniziativa che, nelle sue parole, non sarebbe altro che un “weekend lungo” mascherato da protesta sociale.

Una battuta tagliente, destinata a incendiare il dibattito e a polarizzare ulteriormente la campagna. Perché se l’obiettivo è trasformare la tensione politica in consenso elettorale, Meloni ha deciso di scommettere ancora sulla contrapposizione netta, convinta che a pagare sia la difesa della cosiddetta maggioranza silenziosa del Paese: quella parte di cittadini che non ama le piazze, non sopporta la paralisi dei servizi pubblici e guarda con sospetto alle mobilitazioni sindacali. Il premier non si limita a denunciare l’iniziativa come strumentale, ma la dipinge come un abuso del diritto di sciopero, un danno arrecato non solo al governo ma soprattutto ai cittadini che si troveranno ostaggio di un’agitazione nata, a suo dire, da un pretesto politico.

Il messaggio è chiaro: chi sciopera non è dalla parte dei lavoratori, ma di una minoranza rumorosa che strumentalizza le tensioni internazionali per fare campagna politica contro l’esecutivo. E Meloni sembra voler replicare lo schema già testato nelle Marche: attaccare la sinistra, rafforzare la propria base e presentarsi come garante dell’ordine e della stabilità.

Sulla stessa linea si è mosso Matteo Salvini. Il leader della Lega ha alzato i toni per tutta la giornata, bersagliando soprattutto i sindacati “di sinistra” e puntando il dito in particolare contro il segretario della Cgil, Maurizio Landini. Il vicepremier ha parlato apertamente della necessità di vigilare contro eventuali soprusi, arrivando ad annunciare possibili precettazioni per i lavoratori nei settori considerati essenziali.

E dopo il pronunciamento del Garante sulla mancanza di preavviso, il vicepremier ha colto la palla al balzo per annunciare anche un’informativa nel Cdm sugli scioperi e proporre un aumento delle sanzioni. Una scelta che non è solo di merito, ma anche di posizionamento: Salvini sa che il terreno dello scontro con i sindacati è congeniale a rilanciare la propria immagine di uomo d’ordine e di difensore di chi lavora davvero, contro chi a suo avviso usa lo sciopero come arma ideologica.

Così, mentre la premier guida l’offensiva contro la sinistra, il leader della Lega prova a ritagliarsi uno spazio di visibilità, accentuando il proprio ruolo intransigente rispetto a una Meloni che comunque non sta lesinando colpi bassi ai suoi avversari politici. Il risultato è un centrodestra che si muove compatto nel denunciare le piazze sindacali, ma che al tempo stesso vive una competizione interna fatta di toni esasperati e di rincorse reciproche. L’una rafforza la narrazione della responsabilità e della fermezza, l’altro quella della lotta senza quartiere ai “professionisti del conflitto sociale”.

Il contesto, del resto, è quello di una campagna che si nutre di polarizzazione. Dopo aver capitalizzato il successo nelle Marche, Meloni punta a confermare che la sua leadership non solo resiste ma si alimenta dei contrasti. Ogni manifestazione di piazza diventa così un’occasione per riaffermare l’immagine di un governo che non arretra e che si dice dalla parte degli italiani “per bene”. Salvini, da parte sua, vede nello stesso scenario un’occasione per guadagnare terreno all’interno della coalizione, trasformando la contesa con i sindacati in un palco su cui recitare la parte che da sempre preferisce: quella dell’uomo che non teme lo scontro e che è pronto a usare anche l’arma della precettazione.

Il secondo weekend elettorale consecutivo, dunque, si apre con un copione che sembra scritto apposta per consolidare la linea dura. Meloni e Salvini marciano insieme, ma competono nello stesso tempo: la prima per rafforzare il legame con quell’Italia che rifiuta le proteste e chiede ordine, il secondo per ribadire che la Lega resta il partito del lavoro vero e dell’intransigenza contro chi ferma il Paese. Entrambi, però, condividono un punto fermo: lo sciopero generale non è più visto come strumento di tutela, ma come una sfida politica da neutralizzare.

Un clima che conferma come, per il centrodestra al governo, la campagna elettorale sia ormai una gara a chi alza di più l’asticella dello scontro. Con la convinzione che la posta in gioco non sia soltanto la prossima tornata alle urne, ma la capacità di egemonizzare il dibattito pubblico, relegando la sinistra a un ruolo residuale e i sindacati a un avversario comodo da colpire. Perché, nella narrazione di Meloni e Salvini, la vera maggioranza del Paese è quella silenziosa. E a quella, non alle piazze, continuano a parlare.