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Segretaria nazionale del Partito Democratico Elly Schlein fa visita al banchetto di raccolta firme regionale per la proposta di legge di iniziativa popolare sulla sanità in piazza san Carlo - Lunedì 15 Aprile 2024 (Foto Claudio Furlan/Lapresse) Democratic Party national secretary Elly Schlein visits the regional signature collection banquet for the popular initiative bill on health care in St. Charles Square - Monday, April 15, 2024 (Photo Claudio Furlan/Lapresse)
La notte ha portato consiglio e ad Elly Schlein ha consigliato di ripensarci: «Non abbiamo bisogno del nome della segretaria in lista». A proporre in Direzione di inserire il suo nome nel simbolo del Pd per le Europee era stato il presidente Bonaccini, ma l'idea era della stessa segretaria e ancora domenica sera era propensa ad andare avanti. Poi una vera e propria rivolta interna ha dimostrato che presentarsi alle urne lacerati avrebbe implicato danni ben maggiori dei vantaggi offerti dal suo capeggiante nome. Ha ringraziato Bonaccini e ingranato la retromarcia.
Il fuoco di sbarramento era stato altissimo già in Direzione, anche se si era ulteriormente intensificato. A mitragliare non erano solo la minoranza di Bonaccini e la sinistra ma anche granitici sostenitori di Elly Schlein come Provenzano e Laura Boldrini. Si era imbizzarrito un grande elettore decisivo per l'approdo al vertice della segretaria come Dario Franceschini. Romano Prodi non aveva atteso la trovata per emettere la sua scomunica. Aveva già detto molto forte e molto chiaro che presentarsi come capolista pur non avendo poi alcuna intenzione di optare per il Parlamento europeo «è una ferita per la democrazia». Figurarsi l'idea di identificare quel nome con la lista. Se in Direzione la proposta fosse stata messa ai voti, sarebbe stata sonoramente bocciata.
Bisogna comunque chiedersi perché Elly avesse optato per una scelta così dirompente e impopolare nella sua stessa maggioranza e non lo si può comprendere senza tener conto dell'intera, lunga partita giocatasi nelle ultime settimane. Per il Pd per la sua leader la definizione delle liste per le Europee è stata una via crucis. È quando si va al sodo, cioè alle candidature e ai posti, che nel Pd il gioco si fa duro: Elly ha toccato con mano la forza delle correnti e il potere dei detestati cacicchi. Si è resa conto di dover trattare, concedendo molto ai potentati interni. Mirava a presentarsi capolista in tutte le circoscrizioni, come prevedibilmente farà Giorgia la rivale diretta. I pezzi da novanta hanno detto di no, le donne la hanno accusata di far loro danno: si è acconciata a guidare le liste solo al Centro e nelle Isole. Aveva considerato l'ipotesi di mettere in testa alle liste tutte figure esterne alla nomeklatura, in nome della immancabile “società civile”. C'è riuscita solo al Sud con Lucia Annunziata e al Nord-Ovest con Cecilia Strada. La mediazione con la minoranza, oltre a una quantità di posti eminenti in lista, è costata la designazione di Bonaccini capolista nel Nord-Est con slittamento al secondo posto della candidata di Elly, la responsabile dell'ambiente Annalisa Corrado. Dietro a Cecilia Strada c'è il capogruppo europeo uscente Bonifei, della sinistra. Al Centro il secondo posto è di Nicola Zingaretti, nelle Isole di Antonio Nicita. Al Sud dopo la giornalista ed ex presidente del cda Rai c'è il sindaco uscente di Bari Decaro, candidature certe di per sé: a seguire un'esponente dell'opposizione, Pina Picierno.
La segretaria ha dovuto trattare anche con il primo dei cacicchi, il governatore campano De Luca, che infatti in Direzione la ha appoggiata. In cambio il campano ha conquistato la candidatura del “suo” Lello Topo, signore dei consensi, anche se la sua presenza rischia di silurare un fedelissimo della segretaria come Sandro Ruotolo e senza nemmeno dover concedere l'impegno a non candidarsi comunque in Campania per il terzo mandato anche contro il Pd. Nel complesso sembra chiaro che nell'Eurogruppo la minoranza peserà quanto i parlamentari della segretaria e probabilmente anche di più. La prima partita giocata davvero nel partito dal giorno dell'avvento alla segreteria rischia quindi di risolversi per l'outsider non in una sconfitta ma almeno in un ridimensionamento.
Per questo aveva deciso di forzare con una mossa che avrebbe inciso sul dna stesso del Partito democratico e avrebbe fatto fare un passo da gigante al tentativo di Elly di trasformarlo nel “suo” partito. Certo, in Italia di partiti del leader, che si identificano col capo e vengono percepiti dall'elettorato come truppa di quel capo, ce ne sono a valanga. Il Pd però non solo non lo è mai stato e si è sempre fatto vanto di essere un vero partito articolato e plurale non “personale”.
L'affondo di Elly revocava in dubbio quel tratto essenziale del partito e oltre tutto lo faceva in prossimità di una sfida referendaria sul premierato nella quale, se confermata, la proposta del nome nel simbolo si sarebbe trasformata in un grosso handicap, quasi una prova di incoerenza. Passo molto rischioso, probabilmente controproducente anche in termini di voti. La segretaria, stavolta, ha preferito la ritirata. Dando prova di intelligenza politica e saggezza.