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È un ritorno alle origini, quasi una rivincita dopo anni di accuse di putinismo. Da quando, nel 2015, indossò la famigerata maglietta con il volto di Putin (con annessa figuraccia in Polonia al confine con l'Ucraina), mai Salvini si era spinto così vicino alla linea del Cremlino.
A poche ore dal comizio del centrodestra ad Ancona, a Roma l’asse di governo è in preda a fibrillazioni. L’abbraccio del vicepremier all’ambasciatore russo Alexei Paramonov, durante il ricevimento organizzato all’ambasciata cinese per il 76° anniversario della Repubblica popolare, è diventato il detonatore di un cortocircuito politico che rischia di spaccare la maggioranza. Non solo ha innescato l'ovvia reazione polemica del campo largo (che a Palazzo Chigi interessa il giusto), ma ha aperto una crepa profonda con Giorgia Meloni e Antonio Tajani, costretti a fare i pompieri in un momento già delicatissimo sul fronte internazionale.
E che non sia un caso lo conferma il fatto che a dare il “la” a questa offensiva era stato qualche giorno fa il generale Vannacci, affermando candidamente di preferire di gran lunga Putin a Zelensky. Salvini non ebbe nulla a eccepire, e a quanto non arretra di un millimetro. «Preferisco una stretta di mano che uno sguardo rabbioso», ha detto a Telelombardia, rivendicando il gesto come normale atto di cortesia diplomatica. Ma le sue parole non bastano a contenere lo scandalo.
«Una vergogna profonda per l’Italia», attacca Filippo Sensi (Pd), chiedendo che il governo prenda le distanze da quello che definisce un atto di “legittimazione” del regime di Putin. Francesco Boccia rincara: «Meloni è contenta della deferenza di Salvini verso chi ha attaccato il nostro Paese? Le ambiguità danneggiano la già bassa credibilità internazionale dell’Italia». Da Azione, Marco Lombardo sottolinea che «il problema non è la stretta di mano, ma il fatto che Salvini vada da anni a braccetto con la Russia di Putin», mentre Enrico Borghi (Italia Viva) parla senza giri di parole di «spaccatura nel governo» e di «messaggio in bottiglia a Putin e a Meloni».
Il riferimento è chiaro: la Lega sta tracciando una sua linea autonoma, filorussa, in aperta contrapposizione con quella dell’asse atlantista guidato da Meloni e Tajani. Quest’ultimo ha provato a ricucire, ribadendo che «è sbagliato dividerci tra fronti, dobbiamo difendere tutte le frontiere», un modo elegante per dire che la minaccia russa non si può ignorare. Ma il Carroccio non sembra avere alcuna intenzione di allinearsi. Anzi, l’episodio all’ambasciata appare come un tassello di una strategia di “guerriglia politica” che Salvini ha ripreso con vigore, in vista delle elezioni regionali e della legge di bilancio: le polemiche contro il riarmo, le bordate su Crosetto, il pressing sulla pace fiscale e sulla tassazione degli extraprofitti bancari, tutte mosse pensate per mettere Meloni in difficoltà e smarcarsi da Forza Italia.
«Noi siamo per la pace, non per la guerra – ha detto il leghista Crippa – quei soldi devono servire per difendere i confini e rimpatriare chi non rispetta la legge». Lo stesso Salvini ha insistito: «I militari li userei per la sicurezza interna, non per mandarli a combattere in Russia», continuando così a stuzzicare il meloniano ministro della Difesa Guido Crosetto. E la presidente del Consiglio, per il momento, deve fingere di non vedere.
Ci sono le Regionali alle porte, e si inizia dal territorio che più le preme: le Marche governate dal suo fedelissimo Francesco Acquaroli. Aprire perdendo un presidente di regione targato FdI sarebbe un brutto colpo, ed è per questo che Meloni ieri sera è salita sul palco assieme ai suoi vice, dando grande sfoggio di concordia e unità. Ma l’irritazione a Palazzo Chigi è forte. In un contesto internazionale in cui la premier si sforza di mantenere l’Italia agganciata all’Europa e agli Stati Uniti, stretta tra la smania interventista dei volenterosi e il disinteresse di Trump, l’immagine del suo vicepremier che ammicca all’ambasciatore di Putin rischia di diventare un boomerang diplomatico.
Eppure Salvini sembra non preoccuparsene. Anzi, la provocazione è parte del piano: rafforzare il legame con la base più radicale dell'elettorato di centrodestra, che non è certo disposta a sacrificare risorse per salvare l'Ucraina, e arrivare alle Regionali con un profilo autonomo, alternativo a quello della premier. Non manca chi ipotizza addirittura un lavoro di sabotaggio politico da parte del segretario del Carroccio, in base a un cinico calcolo su possibili benefici per la Lega derivanti da una debacle meloniana nelle Marche, ma in questo caso si può al massimo fare appello al vecchio adagio andreottiano su chi pensa male. La stretta di mano con Paramonov, in questa chiave, non è solo un gesto di diplomazia: è il manifesto di una sfida politica che promette di rendere l’autunno del centrodestra incandescente.


