Come era lecito attendersi, è stato il leader leghista Matteo Salvini a profondere l'entusiasmo maggiore, nel panorama politico italiano, per la vittoria dell'ultrasovranista George Simion al primo turno delle presidenziali romene. Da domenica sera, infatti, quello salviniano è stato un crescendo di gioia e congratulazioni per il vincitore (ancora non definitivo), sulle quali il vicepremier ha poi fatto leva per spingersi laddove Giorgia Meloni, stante la sua condizione di presidente del Consiglio, non può arrivare: attaccare a testa bassa l'Unione europea e lasciare intendere di approvare la linea dello stop del sostegno militare all'Ucraina.

Salvini sa bene che il partito di Simion (l'Aur) condivide a Strasburgo gli scranni dell'Europarlamento con l'Ecr, forza indiscutibilmente a trazione meloniana, ma allo stesso tempo sa che il cambio di linea sui rapporti con Kiev potrebbe creare un problema politico-diplomatico tra la delegazione romena e quelle degli altri paesi rappresentati dall'Ecr, a partire proprio dall'Italia. E così, il leader del Carroccio non lesina toni trionfalistici: «Evviva la democrazia», «spero diventi presidente della Repubblica», «gli ho mandato un WhatsApp di complimenti, mi ha risposto gentilmente».

Ne fa quasi una battaglia personale, un simbolo della riscossa contro i nemici esterni e interni del popolo sovrano. Dice: «Hanno annullato le elezioni a urne aperte, arrestato il candidato presidente, provato tutto: gli hacker russi, i TikTok, Putin e la Nato». E invece il popolo ha votato. Liberamente. E ha scelto Simion.

Il dato che entusiasma ancora di più il vicepremier italiano è che il 70% della comunità romena in Italia ha votato per il candidato del partito Aur, un movimento che fonde nazionalismo, ortodossia, antieuropeismo e - non da ultimo - una posizione sulla Russia più che accomodante. È un fatto che stona non poco con il posizionamento atlantista del governo Meloni e con le dichiarazioni ufficiali di Fratelli d’Italia. Ma Salvini non si pone il problema. Anzi, rilancia: «Quello che accade in Francia con Le Pen o in Germania con l’Afd è tutto fuorché democratico», ha affermato, criticando l’ipotesi di messa al bando dell’estrema destra tedesca. Poi affonda il colpo: «Spero che nessuno torni a intervenire su un processo democratico in un Paese membro dell’Ue».

In questo quadro, l’adesione euforica di Salvini al progetto Simion risulta particolarmente rivelatrice. Per la Lega, la candidatura dell’ex attivista no-vax e leader populista rumeno è il simbolo di un’Europa diversa, fatta di popoli in rivolta, radici cristiane, identità e sovranità. Un altro schiaffo al sistema di potere incarnato da Ursula von der Leyen e dai tecnicrati di Bruxelles, assestato dall'uomo della strada.

Difficile, fatte queste premesse, che il trionfalismo leghista sia condiviso in modo altrettanto caloroso dal resto dell’alleanza di governo. Giorgia Meloni tace. E non è solo cautela. Fratelli d’Italia ha fatto dell’opposizione a Putin una bandiera di credibilità internazionale, l’Aur si muove su ben altre coordinate: toni antiucraini, rivendicazione del nazionalismo etnico, vicinanza a posizioni filorusse. Tutti elementi che rendono forse problematica la sua permanenza in un gruppo parlamentare europeo la cui guida rivendica una direzione atlantista.

Il cortocircuito, quindi, potrebbe avvenire su questo versante: da una parte Morawiecki, ex premier polacco del PiS e alfiere della resistenza anti-Putin, che in un video esorta Romania e Polonia a cooperare per la sicurezza europea e benedice la candidatura di Simion; dall’altra, la contraddizione interna a Ecr che questa corsa presidenziale porta allo scoperto. Perché se il PiS in passato ha guidato l’opposizione a Mosca, oggi si espone in favore di un candidato che fa l’occhiolino al Cremlino.

Nel resto del centrodestra (che sarebbe sostanzialmente FI) Antonio Tajani, non può che essere diplomatico, dato che oltre ad essere il segretario azzurro è il ministro degli Esteri: «La Romania è un paese libero», afferma, «rispetto il voto degli elettori. Vedremo come andrà il ballottaggio». Va un po’ oltre il capogruppo dei senatori Maurizio Gasparri, che mette in guardia contro le derive estremiste: «Politiche europee troppo deboli su sicurezza e immigrazione alimentano il consenso verso certe forze. Serve un cambio di passo».

Un film già visto, quello delle divergenze tra il Carroccio e Forza Italia in politica estera, che finora non ha portato a grandi sconquassi per la tenuta dell'esecutivo e nemmeno a grandi benefici elettorali per l'ex-ministro dell'Interno.