Quanti colpi può incassare la Lega senza che Salvini batta ciglia, o più precisamente senza che si limiti a ruggiti inoffensivi? La domanda se la pongono i collaboratori di Giorgia Meloni e probabilmente anche la stessa premier, con la formula «non dobbiamo mettere Salvini nella condizione di non aver più nulla da perdere». All'atto pratico, però, quel pericoloso confine si avvicina ogni giorno di più.

Il trofeo del Carroccio sarà l'autonomia differenziata approvata prima delle elezioni europee, anzi prima dell'Election Day fissato per l' 8 e 9 giugno. È un successo importante, anche se il vertice di maggioranza di ieri è finito con una vittoria, l'ennesima, di FdI. L'emendamento tricolore che chiede di garantire a tutte le Regioni, anche a quelle che non chiedono l'autonomia differenziata, i livelli essenziali di prestazione adeguati. È appena un indorare la pillola per le Regioni del Sud, che restano a fortissimo rischio, per non dire con la mesta certezza, di essere penalizzate ulteriormente dall'autonomia differenzia e in ogni caso né FdI né Fi avrebbero potuto cedere su quel punto, pena una sollevazione dei loro elettori nelle Regioni meridionali. L'autonomia sarà approvata domani, o al più tardi martedì prossimo: «Che differenza volete che facciano pochi giorni di fronte a una legge di portata storica?», chiosa Gasparri, contentissimo della mediazione raggiunta. Poi sarà il turno della Camera ma l'approvazione in tempo utile per essere sbandierata nella prossima campagna elettorale è certa.

Il prezzo pagato al Carroccio da FdI, che per l'autonomia di Calderoli non si è mai scaldata troppo, è caro. L'opposizione è sul piede di guerra, consapevole di quanto impopolare sia la riforma di Calderoli in buona parte del Paese. Per la Lega, che ha ormai rinunciato non per amore ma per forza al sogno di trasformarsi da partito del Nord in partito nazionale, il problema è relativo. Per gli alleati, che invece hanno nel Sud buona parte delle loro roccaforti non lo è affatto ma la premier non poteva non onorare, sia pure con il vincolo dell'emendamento sui Lep, l'accordo con il Carroccio senza veder vacillare anche la riforma a cui tiene di più, il premierato, che ha iniziato ieri il proprio iter in commissione.

Ma l'autonomia è anche la sola bandiera che Salvini potrà sventolare dopo un anno di mazzate su tutti i fronti. E la raffica di sberle non accenna a finire. In Sardegna i giochi sono fatti, anche se la trattativa sulle “compensazioni” prosegue e non terminerà probabilmente prima dell'ultimo momento utile, tra il 22, data di presentazione delle liste, e il 25, termine ultimo per gli apparentamenti con i candidati governatori. Ma sul terzo mandato per i governatori, la vera posta in gioco importante per il capo leghista, Meloni punta invece i piedi: lo boccia e sembrerebbe anche senza appello. Non è una questione di principio. Il no al terzo mandato, sempre che le cose non cambino nelle prossime settimane e nonostante la determinazione della premier non è del tutto escluso, significa in tutta evidenza che Meloni non è disposta a rinunciare alla conquista del Veneto. Un colpo che equivarrebbe a far tremare dalle fondamenta l'intero edificio leghista.

Ma che questa sia l'intenzione della leader tricolore è fuori di dubbio e in buona parte a questo allude il parente e fedelissimo ministro Lollobrigida quando martella sulla necessità di «riequilibrare» le presidenze di regione, che in effetti vedono al momento il primo partito del Paese fortemente penalizzato, semplicemente perché all'epoca delle ultime elezioni era invece l'ultima ruota del carro della destra. Il che non toglie però che mirare alla principale roccaforte leghista, con la Lombardia, sia un atto di aperta ostilità.

Per Salvini la sola possibilità di trarsi fuori dal vicolo cieco, senza essere costretto a piegarsi oppure a una rottura che significherebbe per la Lega rischiare la scomparsa, passa per le prossime elezioni europee. Non è certo l'arena migliore, in questo momento: i sondaggi sono impietosi. Però solo se riuscirà a ribaltarli, almeno in parte, il leader della Lega potrà trattare con la vorace alleata non partendo da condizioni di assoluta debolezza. La carta Vannacci serve a questo: il generale a destra è popolare e gode del vantaggio che l'elettorato italiano ormai riserva sempre alle new entries in politica. I leghisti non gradiscono ma per Salvini un successo di Vannacci come capolista in tutte le circoscrizioni, sempre che accetti la proposta, rischia di diventare questione di vita o di morte.