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C’è un filo che nelle ultime ore torna a legare Giuseppe Conte e Matteo Salvini sul dossier più divisivo della politica estera italiana: l’Ucraina. Il leader del Movimento 5 stelle affonda senza giri di parole sul “fallimento” dell’Europa, accusa Bruxelles di aver puntato tutto sulla scommessa militare della vittoria di Kiev e indica una sola via d’uscita dal conflitto: «lasciare che a condurre il negoziato siano gli Stati Uniti». Una posizione che, per contenuti e tempistica, fa clamorosamente eco alle parole pronunciate quasi in contemporanea dal leader della Lega, che invita a «dare credito a Trump» e a sedersi quanto prima a un tavolo di pace, perché «prima ci si siede, meglio è per tutti».
La coincidenza non è solo lessicale. È politica. E rimette in movimento quell’asse gialloverde che sette anni fa portò Conte a Palazzo Chigi, con Salvini vicepremier e un governo fondato sulla convergenza tra sovranismo leghista e populismo grillino. Un’intesa che sul fronte ucraino non si è mai davvero dissolta e che oggi riemerge con forza, mentre l’Europa appare divisa e l’Italia alle prese con un equilibrio sempre più fragile.
Conte parla di una Ue «completamente disorientata», incapace di indicare una strategia dopo aver scommesso sulla «vittoria militare sulla Russia a colpi di invii di armi e di spese militari». Una «guerra per procura», la definisce, che alcuni vorrebbero continuare pur non riuscendo «neppure a trovare le risorse per finanziarla». Da qui l’attacco frontale al riarmo e la proposta di utilizzare quei fondi per «contrastare il crollo degli stipendi reali, ridurre le liste d’attesa, rafforzare la sanità e aumentare la sicurezza sulle nostre strade». E soprattutto la conclusione politica più dirompente: se non esiste una linea europea credibile, «non c’è alternativa», se non quella di affidare agli Usa la regia del negoziato.
Salvini si muove lungo un tracciato parallelo. Richiama il precedente del Medio Oriente, rivendica che «le guerre nella storia nascono per questioni economiche», e insiste sul fatto che l’Italia «non è in guerra con la Russia». Il vicepremier ribadisce di aver sempre detto che «non manderemo i nostri figli a combattere» e aggiunge un argomento dal forte impatto simbolico: «Non ci sono riusciti Napoleone e Hitler a mettere in ginocchio la Russia». Il messaggio di fondo è chiaro: la Russia non è piegabile sul campo e ogni ulteriore rinvio del negoziato rischia solo di aggravare i costi politici ed economici del conflitto.
A fare da cassa di risonanza al leader leghista sono i vertici parlamentari del Carroccio. Il capogruppo al Senato Massimiliano Romeo invita apertamente ad «attendere l’evoluzione delle trattative in corso sul piano di pace Usa» prima di varare nuovi provvedimenti sugli aiuti militari, così da definire misure «pienamente coerenti con il percorso diplomatico intrapreso». Il generale Roberto Vannacci spinge ancora oltre, sostenendo che il decreto per l’Ucraina arriva in «un momento topico del conflitto» e che approvarlo ora rischierebbe di produrre un provvedimento destinato a decadere rapidamente se la situazione dovesse cambiare.
È qui che la saldatura tra Lega e Movimento 5 stelle diventa un problema politico serio per Giorgia Meloni. Perché il fronte che chiede di rallentare, se non di congelare, l’invio di armi a Kiev si allarga e guadagna visibilità, mentre il governo è chiamato a sciogliere il nodo del nuovo decreto sugli aiuti militari. Un provvedimento già rinviato una volta e che, anche questa settimana, rischia di non approdare all’ordine del giorno del Consiglio dei ministri.
Conte attacca la premier accusandola di restare “nel mezzo”, silente, in attesa di capire «quale sarà la soluzione migliore per rivendicare di aver contribuito». Salvini, dal canto suo, continua a presidiare uno spazio politico che guarda con favore alla svolta trumpiana e alla fine della strategia europea sul conflitto. Due percorsi diversi che però si incontrano sullo stesso punto: la delegittimazione della linea seguita finora dall’Ue e dall’esecutivo italiano. Per Meloni è l’ennesimo esercizio di equilibrismo. Tenere fede agli impegni internazionali e alla collocazione euro-atlantica dell’Italia, senza spaccare una maggioranza in cui il socio di governo più rumoroso parla la stessa lingua dell’opposizione grillina. L’asse gialloverde, archiviato come un’esperienza del passato, torna così a proiettare la sua ombra sul presente. E a complicare, ancora una volta, la partita ucraina.


