La questione del suicidio medicalmente assistito continua a muoversi in una zona grigia. Mentre il numero delle richieste cresce, il Paese resta privo di una legge organica capace di definire un percorso uniforme e tutelante. È la fotografia che emerge da uno studio pubblicato su Frontiers in Psychiatry e firmato da Emanuela Turillazzi e Naomi Iacoponi dell’Università di Pisa insieme a Donato Morena e Vittorio Fineschi della Sapienza. Una ricerca che mette in luce un’Italia spaccata tra ciò che la Corte costituzionale ha stabilito nel 2019 e ciò che davvero avviene negli ospedali e nelle aziende sanitarie.

Secondo il lavoro accademico, dal 2019 al 2025 sono state registrate 51 richieste formali. Un numero che indica una tendenza in crescita, ma che non si traduce automaticamente in un accesso reale alla procedura. Gli autori descrivono un sistema frammentato, in cui molte aziende sanitarie applicano con ritardi, incertezze o veri e propri rifiuti le condizioni poste dalla Consulta. Ne deriva un percorso spesso affidato ai tribunali, con pazienti costretti a ricorrere ai giudici per vedere riconosciuto un diritto che, sulla carta, è già stato indicato come non punibile.

In questo scenario, la Toscana ha approvato nel marzo 2025 la prima legge regionale che disciplina tempi, competenze e modalità di valutazione delle richieste, tentando di colmare i vuoti lasciati dal legislatore nazionale. Un passo subito contestato dal Governo, che ha impugnato la norma rivendicando la competenza esclusiva del Parlamento. La conseguenza è un nuovo conflitto istituzionale che si innesta su un terreno già complesso, amplificando le incertezze per i malati.

Lo studio ripercorre anche le vicende che hanno segnato la giurisprudenza italiana sul fine vita. La storia di “Mario”, il primo paziente a ottenere il suicidio assistito nel Paese, ha rappresentato un precedente determinante. Così come quella di “Anna”, che per la prima volta ha visto l’intero percorso coperto dal servizio sanitario pubblico. Altri casi hanno esteso l’interpretazione del concetto di “trattamento di sostegno vitale”, includendo non solo i macchinari ma anche interventi farmacologici o assistenziali essenziali alla sopravvivenza. La Corte costituzionale, con decisioni del 2024 e del 2025, ha ribadito che qualunque procedura la cui interruzione provocherebbe la morte in tempi brevi rientra in questa definizione, indipendentemente dalla complessità tecnologica.

Il distacco tra istituzioni e società è evidente. Il Censis, richiamato nella ricerca, indica che il 74 per cento degli italiani è favorevole all’eutanasia o al suicidio assistito, con percentuali più alte tra i giovani e tra i laureati.