Esagerato? E' possibile. Tuttavia non è del tutto stravagante ritenere che lo State Dinner che stasera alla Casa Bianca vedrà Matteo Renzi protagonista assoluto con a fianco il padrone di casa (in scadenza) Barack Obama sia qualcosa che, almeno a livello internazionale, assomiglia a quella legittimazione che in Patria, a livello invece del voto popolare, il premier non ha (ancora) avuto. Gli State Dinner, infatti, sono una sorta di avvenimento diplomatico che finora hanno premiato solo tre capi di governo italiani: Giulio Andreotti (due volte); Romano Prodi diciott'anni fa e, adesso, l'ex sindaco di Firenze. Nel mezzo, anche due presidenti della Repubblica: Cossiga e Pertini. Come dire: roba degli anni ?80.A vantaggio di coloro ai quali piace stilare parallelismi maliziosi, è possibile sostenere che come riconoscimento di leadership la cena a Washington vale più o meno come il discorso che Silvio Berlusconi tenne il 1 marzo 2006 di fronte al Congresso americano. In quel caso, in linea con il personaggio, si trattò di un "one man show": il successo fu clamoroso. Stavolta, in occasione del passaggio diplomatico più importante della sua carriera, Renzi ha deciso di allestire una delegazione del massimo smalto possibile per il made in Italy: i due premi oscar Benigni e Sorrentino; il sindaco di Lampedusa, Giusi Nicolini; la direttrice del Cern, Fabiola Giannotti; la campionessa paraolimpica Bepe Vio; la direttrice del Moma, Paola Antonelli; lo stilista Giorgio Armani e il presidente dell'Autorità anticorruzione, Raffaele Cantone.E' l'ultimo State Dinner per Obama, che l'8 novembre conoscerà il suo successore. Un mese dopo, il 4 dicembre, le urne si apriranno per Matteo: la speranza di entrambi è che la cena di stasera faccia da battistrada all'elezione di Hillary e alla permanenza di Renzi. Secondo i sondaggi, più facile la prima eventualità della seconda.Si vedrà. Certo per Renzi si tratta di un riconoscimento fondamentale. Il viatico migliore per il braccio di ferro con la Ue sui conti ballerini e sugli sforamenti che costellano la legge di Stabilità che Bruxelles si appresta ad esaminare. Lì le cose sono meno scintillanti: molte critiche e niente cotillons. «Non sono queste le cifre che ci aspettavamo», hanno mormorato nei palazzi della Commissione secondo i retroscena più accreditati.Facile capire perché. L'innalzamento del deficit è l'esatto contrario della dottrina Merkel; la crescita del rapporto deficit/Pil va in direzione opposta a quanto fatto dai governi precedenti; l'evidente tasso di elettoralità di molte misure fa storcere il naso ai sacerdoti degli interventi strutturali per il contenimento della spesa. Renzi non se dà per inteso. Non solo perchè l'endorsement Usa gli cuce addosso un abito di credibilità e autorevolezza che nessuno in Europa può sminuire, e che ha valenza specifica anche e soprattutto dopo la Brexit. In particolare perchè la vittoria referendaria è troppo importante sia dentro che fuori dei confini nazionali: riguarda infatti gli equilibri europei complessivi e di conseguenza almeno fino a che i risultati delle urne non saranno noti, la Ue sarà costretta a "impicciarsi" secondo le accuse mosse da Massimo D'Alema. In pratica dovrà fare buon viso a cattivo gioco. Poi si vedrà.Tutto a posto, dunque? Non proprio. Le cene internazionali vanno bene, anzi benissimo. Ma l'affidabilità e la rilevanza si conquistano sul campo. E su questo fronte le sabbie mobili delle sempiterne incompiutezze italiane sono tali di inghiottire i migliori propositi e le più accattivanti promesse. Per esempio non sono certo sfuggiti ai commissari comunitari le cifre snocciolate dal ministero dell'Economia, quelle con la quali Pier Carlo Padoan ha fatto sapere che nel solo biennio 2012-2013 sono stati evasi la bellezza di 217 miliardi l'anno. Riferito alle sole entrate tributarie, il dato fa capire che di tasse irrintracciate l'Italia paga il non indifferente dazio di 93 miliardi l'anno. Per non parlare dell'immenso patrimonio del sommerso, che non solo di evasione tributaria ma anche di criminalità e mancate dichiarazioni si nutre, che sfugge ai radar del fisco e di conseguenza priva le casse dello Stato di introiti fondamentali. Proviamo a paragonare queste cifre al fatto che il braccio di ferro con la Ue per la cosiddetta flessibilità vale lo 0,3 per cento del Pil, circa 15 miliardi. Vien fuori una domanda frutto di un calcolo che magari fa rabbrividire gli economisti ma agli occhi dei cittadini è illuminante: e se invece di battagliare con l'Europa per aumentare il deficit, con la stessa forza e determinazione il governo quei 15 miliardi si impegnasse a recuperarli dai 93 che finiscono nelle tasche e nei bilanci occulti dei furbetti del fisco? Se lo chiedono i contribuenti. E, sfiorando i loro pallottolieri, gli occupanti di palazzo Berlaymont a Bruxelles.