Matteo Renzi ci ha provato, ma il suo “storitellyng” è sotto accusa. Lui ha contrattaccato anche nelle conclusioni: «Basta descriverci come un gruppo di arroganti del Giglio magico. Il Jobs act è la cosa più di sinistra fatta negli ultimi vent’anni e il mio è il governo dei diritti». Ma la minoranza lo incalza. E non solo più con i soliti Gianni Cuperlo e Roberto Speranza. Ma anche con Piero Fassino e Dario Fraceschini. E con un Massimo D’Alema che, dopo tanti mesi, ieri è tornato alla direzione del Pd, come Il Dubbio aveva anticipato.D’Alema ha assistito, sembra facendo origami, al fuoco di fila, seppur con sfumature diverse, contro il segretario e premier. Ora la minaccia vera della minoranza (che però a questo punto potrebbe essere sotterraneamente supportata da pezzi non indifferenti di partito, anche se Franceschini difende a spada tratta il sì al referendum) è quella di votare no alla consultazione di ottobre se l’Italicum non verrà cambiato con il premio di coalizione. Su questo il bersaniano Roberto Speranza sarebbe deciso. Più soft invece sarebbe la linea di Cuperlo. Ma un po’ a sorpresa c’è stato il ritorno sulla scena dell’ex segretario e ora ministro dei Beni culturali Franceschini che ha chiesto anche lui il cambiamento dell’Italicum, con «il premio alla coalizione», per pescare sia «al centro» che a «sinistra». Non solo: Fassino, reduce dalla bruciante sconfitta a Torino, ha accusato Renzi di «riformismo dall’alto». E a questo punto anche se Renzi sfida tutti e dice: «Se mi volete cambiare vincete il congresso, e lì se volete che io lasci e resti solo premier dovete avere i numeri per cambiare lo statuto», il clima di forzata unanimità che finora c’era stata di fatto si è rotto.Sono tornate le correnti, e quei caminetti che Renzi ha ieri attaccato, in realtà, si sono accesi l’uno dietro l’altro, sotto io suoi occhi. Anche se il premier ieri si è lasciato andare a un attimo di commozione.Il rischio per il premier e segretario è che ora la variegata opposizione e i variegati malumori creatisi nei suoi confronti portino alla richiesta di un vicesegretario unico, per l’intanto. Chi? Fassino? Oppure Franceschini? Se al referendum vincerà il no, i due vengono già dati come candidati di fatto alla successione. Ma un altro competitor da non sottovalutare sarebbe il big dei Giovani Turchi Andrea Orlando, ministro della Giustizia che potrebbe anche essere spalleggiato dal presidente dem Matteo Orfini, di cui la minoranza ha a più riprese chiesto le dimissioni da commissario del partito a Roma.La linea che Renzi si era dato per la prova del fuoco della direzione più difficile (dopo le batoste di Roma e di Torino, non compensate dalla vittoria a Milano, era quella di non essere né «concessivo né arrogante». In effetti Renzi ieri pomeriggio è apparso un po’ come tentare una terza via. Anche nel senso politico del termine. Ma un po’ fuori tempo massimo rispetto ai tempi che corrono nella scena mondiale, che ha messo in crisi la globalizzazione, rimettendo in discussione il ruolo della sinistra ovunque, secondo attenti osservatori. Renzi è apparso a metà Tony Blair (o se guardiamo a un esempio italiano, il Claudio Martelli di più di trent’anni fa di “Meriti e bisogni”) quando, difendendo il suo jobs act, come «unico strumento contro la precarietà», ha attaccato «l’assistenzialismo» e difeso «le opportunità, ricordando (refrain blairiano) che con la crescita si combatte la povertà». E qui però non lo ha seguito neppure Fassino, che pure nel Pci-Pds-Ds era apparso come quello più concessivo verso il nuovo corso del Psi di Craxi: «Inutile che si vince nei centri storici e poi perdiamo nelle periferie. E magari presentiamo il piano periferie», ha attaccato Piero. Ma per l’altra metà a Renzi non sarebbe riuscita neppure troppo bene la parte del “concessivo”, perché come Matteo Richetti ha già sottolineato con Il Dubbio «Non si può chiedere a Renzi di non essere più Renzi». Quindi, il premier ha teso il ramoscello di ulivo (ma non Ulivo nel senso politico perché niente cambiamenti per l’Italicum) a Cuperlo, ringranziandolo per aver dato valore alla legge «dopo di noi», mentre altri, anche sedicenti renziani, secondo il capo del Pd non lo avrebbero fatto. E quindi bacchettate a loro soprattutto a quei «renziani che diffondono veline in Transatlantico e dicono che non ho più il tocco magico: è una malattia», ha infierito. Secondo i maliziosi, sotto accusa ci sarebbe tra gli altri Ernesto Carbone con quel suo “Ciaone” al referendum sulle trivelle, che con la sua linea giudicata pasdaran ora sarebbe sotto accusa per aver danneggiato il premier. E ancora, quanto ai “renziani” che ora potrebbero «scendere dal carro», minacciati di non risalirci più, questi sarebbero i franceschiniani in primis. Renzi ha provato a compiere un gesto di umiltà proiettando il film sul campione di calcio inglese Eric Cantona, secondo il quale la sua vittoria più bella non è stata un goal ma «un bel passaggio». Per rimarcare, insomma, che lui è un uomo che gioca per la squadra. Ha detto che il «Pd è un partito scalabile». Come dire, però: provateci se ne avete la forza. Ma ha anche esibito un filmato con Giorgio Napolitano che accettando il sacrificio di un secondo mandato chiese «le riforme». Renzi ha cercato di spersonalizzare, come gli avevano chiesto alcuni dei suoi, il referendum. Ma di fatto ha riconfernato tutto. E ora la minoranza, bersaniana innanzitutto, minaccia il no se non cambia l’Italicum. Cuperlo non si sa cosa farà. Ma è andato giù duro: «Matteo come tu dicesti a Grillo: esci dal blog, io ti chiedo: esci dal Talent dell’Italia patinata e ascolta di più i sentimenti reali del Paese. Basta battute come quella su Marchionne contro i sindacati». E ancora Cuperlo contro il governatore campano Vincenzo De Luca: «Io avrei mostrato il filmato di Giorgio Almirante alla camera ardente di Enrico Berlinguer. Rispetto per gli avversari! La sindaca di Roma Virginia Raggi e il sindaco di tutti, non una bambolina! ».D’Alema avrebbe ascoltato con piacere queste parole. Perché non è intervenuto? «Ma hanno già detto tutto gli altri... », avrebbe confidato a chi gli stava vicino. E stavolta non solo i soliti Cuperlo e Speranza. O Bersani che prima della direzione ha attaccato per chiedere il cambiamento dell’Italicum. Renzi ha sempre i numeri dalla sua parte. Ma lo “storytelling” appare come una formula incrinatasi, che non riesce più a tenere sotto un forzato unanimismo il Pd. Appuntamento alla direzione del 23 luglio sull’Europa. Ma soprattutto al referendum di ottobre, al massimo entro il 20 novembre. Non a caso il vicesegretario Lorenzo Guerini boccia il documento di Speranza e Cuperlo in cui si chiede di dare spazio di cittandinanza anche a chi voterà no: «No a qualsiasi ambiguità». È la conferma che ora per Renzi la strada di ottobre è ancora più in salita.Anche se a favore dell’ordine del giorno di Cuperlo e Speranza hanno votato solo in otto.