La tempesta che si è abbattuta sul Csm per le dichiarazioni poi smentite del giudice Morosini lasciano per qualche ora sullo sfondo il nodo principale, ossia se e quanto conta la questione morale per le prossime elezioni e come intende atteggiarsi Renzi per fronteggiare lo stillicidio di inchieste che si sono abbattute sui dirigenti dei Democrat.Sul primo punto, la risposta è semplice: conta eccome. La conferma arriva dai sondaggi (ultimo quello Ixè) che registrano il balzo in avanti di un punto dei Cinquestelle (dal 27,1 al 28,1: record storico finora) e una flessione di mezzo punto del Pd, fermo a 30,5. Seppur da prendersi con le pinze come tutte le rilevazioni statistiche, significa che i grillini mai come stavolta sono ad un passo dal raggiungere il Pd. Anzi, sotto il profilo della fiducia nei leader, l’hanno già fatto: Renzi e Di Maio, infatti, sono appaiati al 28 per cento (ma il premier perde un punto). Un campanello d’allarme, non ancora una emergenzl’ua vera e propria. Però guai a sottovalutare l’umore dell’opinione pubblica: non c’è errore peggiore che un leader politico possa compiere. Anche perché il dato dei sondaggi conferma quanto comunque emerge dalla campagna elettorale amministrativa. A Milano, Parisi ha praticamente raggiunto Sala. A Roma, l’endorsement di Berlusconi a Marchini proietta l’ex costruttore verso il ballottaggio a scapito del candidato piddino Giachetti; a Napoli poi il medesimo ballottaggio sembra avere la consistenza di una chimera con Valeria Valente accreditata di un terzo posto, staccata sia da De Magistris ma anche dal centrodestra Lettieri.Bisogna correre ai ripari, insomma: serve una sterzata. Facile a dirsi, molto più difficile a farsi. Perché qui entra in gioco il secondo punto, quello della classe dirigente pd sul territorio. Su questo fronte, la rottamazione in molti casi ha avuto il significato di aprire il vaso di Pandora di una conflittualità esasperata che non sempre ha premiato il migliore, assai spesso solo il più organizzato. E che comunque ha visto il premier distratto e poco incline a farsi coinvolgere in beghe difficile da gestire. Non a caso il messaggio che da palazzo Chigi continua ad arrivare è che “si vota il primo cittadino e non il primo ministro”; che dunque le urne del 5 giugno sono un fatto locale o poco più. Ma davvero Renzi immagina di potersi scansare a basta rispetto ad una possibile slavina di insoddisfazione e sconfitte? Sono in molti, anche dentro l’inner circle renziano, che temono non sarà possibile e che eventuali risultati negativi sono inevitabilmente destinati a gettare un’ombra di incertezza sull’appuntamento referendario di ottobre, vero crocevia della legislatura e del destino politico del capo del governo.Ma così si finisce per mettere nel mirino lo stesso premier e quel suo doppio incarico che ufficialmente è criticato in maniera ancora blanda, ma rischia di diventare il perno della discordia se il 5 sera il conteggio dei voti dovesse riservare amarezze per il Nazareno. Tuttavia non si scappa: se Renzi intende essere sia capo del governo che del partito, di quest’ultimo non può non occuparsene. Il che vuol dire mettere nel conto di entrare in conflitto con ras e potentati locali. Soprattutto significa caricarsi sulle spalle il tema spinosissimo della selezione della classe dirigente: le autosospensioni arrivano dopo i provvedimenti giudiziari; il nodo è arrivarci prima.