La bolla di sapone mediatico-polemica sulla "spersonalizzazione" del referendum costituzionale si è incaricato di farla scoppiare Matteo Renzi stesso: «Chiunque mi conosce sa cosa farò nel caso dovesse vincere il No». Al di là delle nuances da galateo istituzionale, il senso è inequivocabile: in caso di sconfitta addio a palazzo Chigi. Perché solo chi è afflitto da inguaribile ingenuità può immaginare che possa restare la suo posto un premier palesemente sfiduciato dai cittadini su un crinale così significativo.Per chi avesse residui dubbi, vale il recentissimo precedente della Brexit: così come David Cameron non è politicamente sopravvissuto alla vittoria del Leave, lo stesso accadrebbe a Renzi nel caso fossero i No a prevalere. Peraltro proprio il versante europeo, in particolare all'indomani dell'incontro a Maranello tra il presidente del Consiglio italiano e la Cancelliera Angela Merkel, acquista un valore specifico nella battaglia referendaria.Ci torneremo. Per ora è necessario occuparsi della bolla scoppiata. Per rispondere ad un interrogativo decisivo: acquisito che la spersonalizzazione è un illusorio gioco di specchi, ma davvero a Renzi conveniva togliere dal tavolo - meglio, dalla cabina elettorale - la carta della sopravvivenza del governo?Vediamo. Come tutti sanno, il referendum costituzionale era stato caricato dal capo dell'esecutivo di una specifica valenza: quello di un attestato di fiducia sulla sua stessa persona; ossia di un leader capace, attraverso misure attese da decenni, di far riguadagnare credibilità e autorevolezza alla politica mediante la ritrovata capacità di autoriforma. Con il corollario di un successo che si trasforma in un fondamentale attestato legittimatorio, una sorta di De profundis riguardo le accuse di essere arrivato al governo in assenza di un formale passaggio elettorale.Poi però l'orizzonte si è riempito di nuvole e quella che doveva essere una marcia trionfale si è trasformata in un percorso stentato e rischioso. Di qui l'oplà mediatico-politico. Meglio spersonalizzare la consultazione popolare mettendo il silenziatore alla questione governo; puntare i riflettori sul merito della riforma; riprendere in tal modo speditezza di marcia rigonfiando le vele della possibile vittoria grazie alla mossa di sfilare alle opposizioni l'arma più potente, la più utile a portare il loro popolo a votare: dare il benservito al presidente del Consiglio.Solo che anche questa prospettiva è in poco tempo evaporata come nebbia al sole. Per il semplice motivo che ogni volta che i cittadini si esprimono, i politici - specie se occupano posizioni di potere - ne risultano giocoforza coinvolti, sempre e comunque. E poi perché non è affatto sicuro che la spersonalizzazione risulti davvero così favorevole alla causa renziana. Anzi: forse è il contrario.Se in gioco non c'è il destino di Renzi, infatti, M5S e centrodestra "perdono" l'avversario ma anche il premier perde la militanza del suo elettorato: chi non vuole far cadere il governo ma nutre perplessità sulla bontà ed efficacia della riforma, può essere indotto a disertare le urne visto che tanto nulla cambia negli equilibri di governo. E ancora. Davvero milioni di italiani si possono sentire trascinati dallo scontro sulla revisione del Titolo V della Costituzione o dal Senato ridotto di numero?Senza contare che la personalizzazione da un lato diventa obbligata con il procedere della campagna elettorale e dall'altro è la leva per muovere supporti ed endorsement non solo nazionali. Qui infatti torna in gioco l'assetto Ue. L'edificio europeo è già stato terremotato in profondità dall'addio britannico. Se un nuovo, scompaginante colpo di maglio arriva da un'altra chiamata ai seggi in un Paese fondatore, è l'intero edificio europeo che minaccia di collassare.Questo spiega l'attenzione con cui Berlino segue le vicende italiane, e l'appoggio che la Merkel non manca di dare allo sforzo riformatore di Renzi. Attenzione e appoggio che sono mossi da precisi interessi e specifiche convenienze. Ma che in tanto possono essere dispiegate in quanto la posta in palio è davvero di primo piano. Se cioè, in altri termini, è il capo del governo a rischiare e con lui la stabilità politica italiana. Considerazioni simili valgono anche per lo scontro politico nazionale. Al di là della necessità di ciascun schieramento di mobilitare le proprie truppe, non a caso è il "dopo" personalizzato che tiene banco. Si spiega così il fatto che Renzi sparga vetriolo sull'eventualità di un governo Brunetta-D'Alema. Come pure che i suoi antagonisti - al netto della querelle sulla modifica dell'Italicum, tema utilizzato per avvelenare ancor più i pozzi - assicurino di volerlo lasciare al governo, con il retropensiero di poterlo condizionare meglio visto l'indebolimento anche e soprattutto di leadership che seguirebbe alla sconfitta del Sì.E dunque? Dunque non si scappa. Dal momento in cui Renzi avrà fissato la data di svolgimento del referendum scatterà una gara dove la personalizzazione sarà massima ed inevitabile. Il premier non potrà esimersi dall'agitarla perché è palese che la vittoria del Sì o del No cambierà lo scenario dei rapporti maggioranza-opposizione e della legislatura. Il punto politico fondamentale sta qui. Può suonare paradossale, ma solo calando l'asso della sua permanenza o meno a palazzo Chigi Renzi ottimizzerà le possibilità di vittoria, trascinando dalla sua parte anche chi comincia a perdere fiducia nei suoi riguardi ma è terrorizzato dalla confusione politica che deriverebbe da una sua eventuale uscita di scena.Vale anche per chi disegna sentieri di possibili quanto innominabili convergenze in base ai quali nè i Cinquestelle nè il centrodestra si svenerebbero per far vincere il No. Scenari poco credibili e altrettanto poco praticabili. La realtà è che l'unica cosa che davvero è importante per ciascuno degli attori in gioco è vincere: correre in soccorso del perdente è sport sconosciuto in Italia.