Dopo 48 ore passate a compulsare i media che, sulla base di indiscrezioni verosimilmente fatte trapelare da fonti vicine a palazzo Chigi, si inerpicavano su scomode nonché scivolose anticipazioni del come sarebbe cambiato l'Italicum, Matteo Renzi si è incaricato si smentire di persona le tante valanghe di illazioni. Il Pd, ha chiarito infatti il premier, non avanzerà alcuna proposta di modifica prima del 4 dicembre: «Siamo aperti al dialogo ma aspettiamo le indicazioni degli altri partiti. Ci confronteremo in Parlamento, che è sovrano».Docce scozzesi a ripetizione dunque: una strategia di stop and go che fa da contrappunto ai sondaggi, che se da un lato confermano che il No è in testa dall'altro avvertono che metà degli italiani non ha ancora deciso se e cosa votare. Quella del capo del governo è la scelta azzeccata per portare verso il Sì i perplessi e gli astensionisti?Difficile fare anticipazioni: la risposta sarà solo il responso delle urne a darla. Si può però - e forse non è esercizio vano - provare già fin d'ora a capire la cornice entro la quale si muovono i protagonisti della battaglia referendaria. L'immagine che meglio rappresenta la situazione è quella della doppia impossibilità: impossibilità per il presidente del Consiglio di cambiare l'impostazione che si è dato; impossibilità per i suoi competitori, interni ed esterni al Pd, di fare altrettanto.La prima impossibilità, che riguarda appunto Renzi, è di facile individuazione. Incurante dei tanti che, a sinistra, lo strattonano per avere una spendibile giustificazione per votare Sì nonostante i dubbi e le critiche alla riforma costituzionale, il premier non intende affatto riconoscere che riforma del Senato e legge elettorale siano due facce della stessa medaglia. Non che Renzi non ne sia persuaso: è fin troppo consapevole di aver costruito una intelaiatura politico-istituzionale in cui ogni parte è connessa e si tiene con l'altra. Spostare un pezzo minaccia di far venire giù tutto l'edificio.Semplicemente il quesito referendario riguarda la Costituzione e per arrivarci occorre intraprendere un percorso assai più lungo e tortuoso che il cambiamento per semplice legge ordinaria del meccanismo elettorale prevede. Ecco perché la scelta tra il Sì e il No «riguarda i prossimi vent'anni».Inoltre per approvare l'Italicum il governo è ricorso (più volte) al voto di fiducia: uno strappo che adesso è impossibile rinnegare. Se Renzi accedesse all'idea di modificare un sistema così tenacemente voluto e peraltro ancora mai sperimentato, vorrebbe dire consegnare nelle mani dei suoi avversari un argomento polemico di primaria rilevanza: di fatto, l'ammissione di aver comesso uno sbaglio sul terreno che più gli sta a cuore, ossia l'impronta riformista dell'esecutivo. Se non proprio Canossa, qualcosa che gli si avvicina. L'unica strada sarebbe quella che gli ha consigliato a suo tempo Giorgio Napolitano: far proprio il testo del bersaniano ex capogruppo Roberto Speranza, una sorta di Mattarellum rivisto e corretto, e su quello impostare modifiche ottenendo in cambio l'unità del partito. Eventualità che Renzi, allo stato, si rifiuta di prendere in considerazione: le ragioni sono le stesse di sopra.Speculare alla sua, c'è tuttavia anche l'impossibilità dei suoi oppositori, soprattutto dentro al Pd. Da quando è diventato segretario, l'ex sindaco di Firenze si è rifiutato di riconoscere il rango di interlocutori alle opposizioni interne. Nessuna concessione è stato fatta al ruolo politico della sinistra interna. La quale fin dall'inizio si è messa di traverso, convinta di avere a che fare se non con un usurpatore con qualcuno che ne ha fattezze (e pericolosità) molto simili. È pensabile che alla vigilia di un tornante che può azzerare quello schema - costringendo Renzi a rimangiarsi un rifiuto quanto mai urticante e politicamente costosissimo - la sinistra dem faccia aperture e si mostri accomodante? Se pure esiste c'è chi lo pensa, verrà allo scoperto solo dopo aver conosciuto l'esito del referendum. Per sopravvivere, se avranno vinto i Sì. Per dettare nuove condizioni di vita interna al Pd, se a prevalere saranno stati i No.Più prosaicamente, il virus della demonizzazione del competitor, che tante critiche ha sollevato ai tempi di Berlusconi, sembra essersi insinuato dentro le mura del Nazareno, infettandole. E nessuno, né allora né ora, sembra in possesso di un adeguato antidoto.E poi c'è anche l'impossibilità - che dunque si moltiplica come in un gioco di specchi - delle altre forze politiche. Sia il centrodestra (ma meglio sarebbe dire Forza Italia), sia i Cinquestelle non hanno alcun interesse a modificare i loro atteggiamenti negativi verso il premier. Se ne parlerà dopo il referendum, quando il panorama politico sarà emedato dal polverone della campagna elettorale e quando gli assetti saranno mutati in profondità, indipendentemente da quale schieramento avrà avuto la meglio.Il risultato è che ci aspettano altri due mesi di circumnavigazione intorno al buco nero della propaganda che tutto inghiotte e niente lascia scappare. Ogni leader è prigioniero del ruolo che si è auto-assegnato, nessuno ha la forza di cambiare le parti in commedia. Toccherà ai cittadini farlo, ancora una volta accollandosi un ruolo di supplenza.