Proviamo a mettere in fila gli elementi che contrassegnano il quadro politico: almeno quelli ufficiali. Primo. Il malumore del Nuovo centrodestra è reale, ed il suo brodo di cultura è al Senato. Non una fronda vera e propria: piuttosto il fastidio di non capire qual è la traiettoria del partito e il fatto che dell’apporto dei moderati al governo al momento ne trova giovamento solo il presidente del Consiglio: molto meno chi si è accollato l’ingrato compito di rompere il legame con l’ex Cav e stabilizzare il quadro politico in un momento difficilissimo. Per di più, i senatori Ncd mal sopportano le incursioni piddine su terreni delicati come ad esempio la prescrizione: emendamenti spiazzanti e poi ricerca di compromessi partendo comunque da posizioni di vantaggio.Tutto questo può giustificare l’implosione: per esempio sulla riforma elettorale? Allo stato, la risposta più attendibile è no. Uno strappo già è avvenuto con l’addio di Gaetano Quagliariello, che dell’Ncd era praticamente il numero due. Un addio che però, nonostante la rilevanza del personaggio, non ha prodotto smottamenti. Insomma i venti di crisi possono essere derubricati come sbuffi di insofferenza di chi si sente poco valorizzato: per ora non sono niente di più. Che poi ad Angelino Alfano possa tornare utile farli trapelare per testimoniare a Renzi il disagio crescente e le problematiche che comportano (al Senato la maggioranza è perennemente in bilico), è un altro discorso. Che ci può tranquillamente stare.Secondo. Qualche tentazione di modificare l’Italicum il premier effettivamente ce l’ha. I sondaggi che danno i Cinquestelle vittoriosi al ballottaggio e in crescendo di popolarità sono fastidiosi pur se non ancora in grado di far accendere l’allarme rosso. Al momento l’intenzione è di tenere duro: prima del referendum non c’è spazio per mediazioni che verrebbero immediatamente lette come cedimenti e invece di aiutare il fronte del Sì finirebbero per indebolirlo. Dopo? Beh, dopo è un’altra storia. In ogni caso se davvero cambiamenti ci saranno non avverranno certo a causa degli ultimatum degli alleati centristi o dell’opposizione interna al Pd, nè è detto vadano nelle direzioni finora più gettonate: premio alla coalizione invece che alla lista, eccetera. Casomai il nervo scoperto sta nel ballottaggio dove i grillini, nel test amministrativo, hanno dimostrato di essere fin troppo competitivi. L’idea avanzata da Pino Pisicchio di legare il doppio turno al raggiungimento di un quorum del 50 per cento di partecipanti al voto potrebbe essere una strada. Ma anche qui: forse. E non è scontato.Terzo. L’epicentro delle fibrillazioni resta il Pd. Lo scenario per cui si andrebbe alla consultazione popolare sulla modifica della Costituzione con un partito lacerato e diviso, con uno o più comitati del No capeggiati da esponenti di spicco del Pd è deleterio: sia sotto il profilo dell’immagine, sia di quello effettivo dei voti. E’ utile perciò cercare di riassorbire, almeno in parte, il dissenso: per il resto, è ovvio che personaggi come Massimo D’Alema non sono recuperabili nè il leader del Pd si propone simili obbiettivi. Tradotto. Nella Direzione di lunedì Renzi cercherà con la sinistra dem di riannodare i fili di un dialogo che negli ultimi tempi è diventato rissa. Qualche tono morbido in più, qualche accenno alle tematiche care all’opposizione interna, qualche riferimento di sostanza alle questioni sociali (tipo la garanzia sulle pensioni) che hanno pesato nel flop del 5 giugno. Oltre questo al momento il premier non sembra voler andare. Sarà sufficiente? Sulla carta, no. Però anche per gli oppositori renziani tirare oltre il limite la corda può risultare complicato. Ridurre a brandelli il partito pur di cacciare Renzi magari votandogli contro al referendum, assomiglia alla scelta di chi sega il ramo su cui è seduto. Che non ci siano alternative a Matteo lo capisce chiunque. L’unica cosa che si può fare è tentare di condizionarlo sfruttando il suo momento di debolezza. Ma cum judicio. Sennò si sfascia tutto.Quarto. Allo stato, il centrodestra continua ad apparire una giungla più che un contenitore politico. Le voci che si rincorrono di un ritorno in campo di Silvio Berlusconi sono suggestive ma hanno anche un che di consolatorio. Se è vero che senza l’ex Cav dentro FI non si decide nulla, è anche vero che quale sia la direzione da prendere Berlusconi non l’ha spiegato. Forse è sconosciuta anche a lui. Certo è che il boom grillino in larga parte dipende dallo smottamento del partito di Silvio, i cui elettori restano più che mai sensibili al richiamo anti-sinistra e se non ci sono offerte politiche credibili si gettano alla grande sui Cinquestelle. La proposta lanciata da Fedele Confalonieri di riprendere la collaborazione con Renzi attraverso un Nazareno-bis peraltro tutto da costruire, cozza con questo ineliminabile e soprattutto incoercibile sentimenti. Gli interessi aziendali sono un conto; i voti veri un altro. Vale anche per Renzi che pure sui voti dei moderati aveva fatto più di un pensierino. Però adesso non li intercetta più e del resto se Forza Italia si rianima e torna in partita, quei consensi in libera uscita tornano all’ovile. Che non è il Nazareno.Quinto. Poi ci sarebbe il Paese reale. Il quale rimane preda di ansie e paure profonde che non trovano risposte. Offrire come balsamo a così acute ferite la discussione - o, peggio, lo scontro - sulla riforma elettorale, vuol dire gettare benzina sul fuoco della disaffezione. Renzi lo sa, e per questo torna ad elogiare il job act che «dal febbraio 2014 ha prodotto 497 mila posti di lavoro stabili in più». Il presidente del Consiglio incassa anche il massiccio endorsement di Confindustria, secondo la quale se al referendum vince il No l’Italia piomba in recessione. Però non basta. Come non è sufficiente l’ombrello Ue per i rischi delle banche. Serve qualcosa di più risolutivo, che incida sulla carne viva degli italiani, sulle loro concrete condizioni di vita. Lo snodo vero sta qui. E si porta appresso anche il verdetto referendario.