E se il vero problema fosse proprio il tripolarismo? Il Paese si avvicina ad un voto referendario che, vinca il Sì o il No, muterà nel profondo il panorama politico. Solo che lo muta verso l'incognito perché i tre bastioni che dovevano fare da argine invece di solidificarsi in corso d'opera, si sgretolano. A tre anni e mezzo di distanza dalle elezioni e dunque a metà avanzata della legislatura, provando ad interpretare tendenze di più lunga gittata, il meno che si può osservare è che i tre poli, ciascuno per intrinseche ragioni, non solo sono in crisi ma al posto di assestare il sistema lo destabilizzano: gelatina invece che cemento.Cominciamo da Renzi e dal Pd. In trenta e passa mesi il premier non è riuscito - o non ha voluto a seconda dei punti di vista - sistematizzare il Pd. Al contrario, dopo la valanga delle Europee, il Pd ha progressivamente ceduto terreno, perdendo consensi e città. Il confronto interno si è via via incattivito, al punto che maggioranza e minoranza appaiono due falangi l'una contro l'altra armata e non pezzi dello stesso esercito. Lo spartiacque è proprio il referendum: tutto infatti lascia intendere che il Pd si presenterà diviso in due tronconi. Qualunque sarà il risultato è impensabile che faccia dal collante: al contrario inasprirà ancor più le posizioni senza escludere, anzi quasi prevedendole, possibili scissioni. Potranno apporti "esterni" compensare i possibili smottamenti? La strategia del capo del governo è esattamente di andare ad acchiappare voti al di fuori del tradizionale perimetro del Pd e anche della sinistra: di grillini e centrodestra, cioè. E' un obiettivo esattamente opposto a quello di Salvini. Mentre Renzi non si preoccupa di rassodare le fila delle sue armate convinto che tanti avamposti avversari gli si arrenderanno per forza di cose, il capo leghista mira a mobilitare le sue truppe e pazienza se ciò significata tagliare i ponti con tutti gli altri. E' la differenza che passa tra chi si carica del fardello della governabilità e chi, al contrario, non se ne cura.Il centrodestra non è da meno. Al momento è uno schieramento in cerca di autore: quello avuto finora, infatti, è diventato troppo ingombrante. Berlusconi gioca su tutti i tavoli lasciando aperti scenari che vanno dall'appoggio ad un governo di grande coalizione con Renzi, al sostengo del No che invece minaccia di estrometterlo da palazzo Chigi, al dialogo seppur altalentante con Salvini in nome di intese mai completamente abrogate. Divide et impera, dicono i suoi ancora presenti e variamente dislocati fan. Dunque ok al sostegno per il tentativo di Stefano Parisi di allargare i confini del centrodestra tradizionale magari anche piazzando nello sgabuzzino pezzi di nomenklatura; e ok allo stesso tempo anche agli affondi di Brunetta contro il patron di Megawatt e alle cene del lunedì con il leader del Carroccio: una volta Bossi, oggi Matteo 2. Uno studioso freudiano parlerebbe di principio di non contraddizione, il medesimo che vige nei sogni. In fondo non è nient'altro che la riedizione dello spirito del ?94: mettere nello stesso calderone forze e consensi non importa se disparati, amalgamati da una leadership indiscussa e indiscutibile. Solo che dal ?94 sono passati 22 anni: politicamente un'era geologica. Quella leadership è sfiorita e perfino in FI c'è chi la contesta. Per cui il motto dei Romani (intesi come popolo) forse nasconde un'altra verità: che l'ex Cav vuol tenere tutto assieme semplicemente perché non sa cosa scegliere. Non risoluto: piuttosto indeciso a tutto.Quanto infine ai Cinquestelle si tratta forse del fenomeno di sfarinamento più eclatante anche perché sembra procedere con velocità pari ai successi fin qui mietuti. Se la conquista del Campidoglio doveva essere la cartina di tornasole per misurare la maturità e la capacità del Movimento di presentarsi come credibile forza di governo, ebbene l'esperiemento sta assumendo la forma delle esercitazioni da piccolo chimico. Si può discutere per mesi e si possono anche - e per vari versi legittimamente - produrre quante giustificazioni si vogliono per spiegare la caoticità dei primi passi del sindaco Virginia Raggi e della sua giunta. Resta il fatto che a Roma i Cinquestelle stanno mostrando il peggio del loro repertorio: impreparazione, dilettantismo, faide interne, gelosie, scontri personali. Ma ciò che più colpisce è la mancanza di una progettualità all'altezza dei problemi, pur enormi, che si devono affrontare. Benché fossero da mesi in testa ai sondaggi di tutti i generi, i grillini si sono presentati all'appuntamento con un successo storico muniti di sbalorditiva superficialità, quasi che governare Roma fosse una gita fuori porta o poco più. Senza un'idea forte da spendere; privi di una visione della città da offrire a chi li aveva votati e soprattutto a chi no.Insomma il tripolarismo italico lungi dall'essere un atout è diventato un pantano. Il rischio è che il referendum, chiunque vinca, ne acuisca la disarmonicità.