Pare che Giorgia Meloni si sia infuriata come mai prima dopo l’invio di quel asettico sms con cui l’Inps informava 169mila famiglie di essere rimaste senza un euro. Certo la decisione era già stata presa e annunciata mesi fa ma la premier, che è un animale politico vero, non aveva certo messo nel conto un passaggio di così squisito autolesionismo. Si può di conseguenza immaginare facilmente con quanto entusiasmo abbia salutato l’errore clamoroso che ha sommato al taglio del rdc quello dell’assegno unico. La premier deve aver scoperto, e certo non per la prima volta, che il suo problema più grande non è l’opposizione ma il suo esercito, o almeno i suoi ufficiali.

Al momento non si può dire che ci siano avvisaglie di una reazione sociale di vero peso e il capogruppo di FdI Toti, che paventa addirittura il luglio ’ 60 contro il governo Tambroni, suona come voce dal sen fuggita. Ma il problema, in autunno, rischia di passare dalle prime e fantasiose pagine dei quotidiani alle concrete piazze italiane. Non è affatto detto ma, nella situazione data, non è neppure escluso. Di certo i toni striduli di Foti e la furia della premier indicano che quella preoccupazione ai piani alti del governo e della maggioranza esiste.

É ovvio che sia così. Meno evidenti sono le difficoltà, oltre che le opportunità, che il disagio sociale crea anche dall’altra parte della barricata, nel Pd. Da un trentina d’anni il partito erede del Pci e della sinistra Dc ha preso sempre più le distanze dalla protesta sociale. I suoi punti di forza politici erano in tutt’altri luoghi. Nelle cancellerie europee, che diffidavano della destra italiana ed erano ben liete di rendere la vita dei governi di destra più difficile. Nei vertici del potere economico e finanziario italiano, che considerava la destra di Berlusconi e figurarsi poi quella di Salvini, come un’area politica inaffidabile, da sfruttare se necessario ma sempre senza davvero sostenerla. Sul Colle, perché il passo tra il presentarsi come “il partito delle istituzioni” e il comportarsi spesso come “il partito del presidente” è molto breve. La storia universalmente nota del “partito delle ZTL” nasce da questa scelta politica che si è tramandata dal Pds ai Ds al Pd. Scelta peraltro produttiva in termini di potere se non di consensi: puntare su quegli appoggi, presentarsi come il partito delle istituzione, dell’Europa e dei ceti medio alti illuminati ha permesso al Pd di governare per una decina d’anni quasi ininterrottamente, pur non avendo mai vinto le elezioni. Presentarsi come il partito delle istituzione, dell’Europa e dei ceti medio alti illuminati ha permesso al Pd di governare per una decina d’anni quasi ininterrottamente, pur non avendo mai vinto le elezioni.

Oggi il quadro è rovesciato, in larga misura ma non esclusivamente grazie alla trasformazione complessiva dovuta alla guerra. I poteri occidentali non contrastano Meloni ma al contrario scommettono su di lei e così anche i poteri economico- finanziari interni. Incide appunto la garanzia atlantista che la premier incarna ma anche la promessa di stabilità rappresentata dalla sua sostanzialmente coesa maggioranza. Resta il capo dello Stato che però ha deciso di non contrastare il governo, sia per il rigore con cui interpreta il suo ruolo sia perché ritiene che oggi l’interesse del Paese non passi per una fase di turbolenza. Insomma, il tallone d’Achille della premier sono proprio quelle fasce deboli e quel disagio sociale che il Pd e i partiti antenati avevano abbandonato da tempo immemorabile e che oggi si trovano invece a dover cavalcare.

Il Pd si presenta all’appuntamento con una carta vincente: la nuova segretaria. Va da sé che, come figura e biografia, possa provare a rappresentare il disagio sociale con molte chances di successo in più rispetto a quelle di Enrico Letta o anche di Nicola Zingaretti. Ma il corpo del partito è quello che è: dirigenti e amministratori formatisi nei decenni nei quali la protesta sociale era vista come una minaccia “populista” e la cui reazione all’eventualità di un’ondata di proteste dal basso non è molto differente da quella di Foti. Senza contare un paio di problemi ulteriori non secondari: l’opposizione interna, che nel voto del partito era maggioranza, guarda con sospetto l’avvicinamento al M5S che, al contrario del Pd, è nato proprio per far leva su umori popolari del genere, è il partito del rdc e Conte certamente sfrutterà la circostanza per la competizione con Elly in vista delle europee. La nuova leadership del Pd, insomma, potrebbe trovarsi presto alle prese con una temperie sociale che costituisce sicuramente un’occasione sulla quale la segretaria punta sin dall’elezione ma con un partito del tutto inadeguato al compito, dovendo fare i conti con un competitor agguerrito come il M5S e con i fucili della minoranza pronti ad aprire il fuoco contro la “deriva estremista”.