Sarà stata anche bassa l’affluenza alle urne del primo turno, ma gli italiani - 12 milioni- chiamati al voto per le amministrative han fatto piazza pulita dei sondaggi che - da anni- recitano il mantra “Lega primo partito” e “Meloni leader al comando”. Purtroppo però il realismo politico dei cittadini, che naturalmente vorrebbero un Paese che funziona e un’Azienda Italia a piena occupazione, non sembra aver fatto piazza pulita degli scenari di Palazzo. Che sono fantasmagorici ma - purtroppo- non frutto di immaginazione, come anche noi abbiamo dovuto constatare.

Cominciamo dalla giornata di ieri. Narrano che il presidente del Consiglio Mario Draghi, a sentire i soliti leghisti di governo invocare - esattamente come Meloni, che però è all’opposizione - la sua ascesa al Colle con annesse immediate elezioni anticipate, si sia non poco irritato. Non per il riferimento al Quirinale (che è ormai un coro, negli inner circle politico-mediatici), ma per il riferimento alle elezioni. I motivi della sua contrarietà possono essere due. Uno nobile, e ovviamente perfettamente all’altezza dello standing di Draghi: non si è mai visto nell’intera storia repubblicana un Capo dello Stato il cui primo atto sia lo scioglimento del Parlamento che lo ha eletto, e anche solo adombrare l’ipotesi è da apprendisti della politica, poiché la Costituzione prescrive al capo dello Stato uscente un “semestre bianco” a poteri limitatissimi in finale di settennato proprio perché non possa sussistere la più pallida ipotesi di condizionamento delle azioni presidenziali. Qua siamo addirittura a un potenziale presidente della Repubblica che si farebbe condizionare da un accordo con le forze politiche per ottenere l’elezione: ne uscirebbe, in tutta evidenza, un Visconte Dimezzato.

La seconda spiegazione è meno nobile, ma molto realistica: il voto è segreto, e quanti sarebbero i parlamentari che voterebbero un presidente che li manderebbe a casa, sapendo pure che il prossimo Parlamento avrà gli scranni dimezzati, e che dopo 4 anni e mezzo non si matura la pensione?

Dunque, poiché oltretutto Draghi non ha mai detto “non ho alcuna intenzione di andare al Quirinale”, ma solo e sempre “parlarne sarebbe irrispettoso nei confronti di Mattarella” ( al Quirinale han cominciato a scuotere la testa: Mattarella sa benissimo che il 2 febbraio scade il mandato, perché mai dovrebbe ritenere irrispettoso che si cominci a ragionare sulla figura del suo successore?), quel che si deduce è che è reale, e non solo un rumours politico, la sua disponibilità ad andare al Quirinale.

Il fatto è che il mandato di Mattarella scade il prossimo 2 febbraio, e da Costituzione gli elettori van convocati un mese prima, con lettera dei presidenti delle Camere. Cosa può accadere? Se Draghi venisse eletto tra la prima e la quarta votazione, con la larghissima maggioranza richiesta, per metà gennaio l’Italia avrebbe il nuovo capo dello Stato. Ma trattandosi dell’attuale presidente del Consiglio, chi indirebbe le consultazioni per sostuirlo? Mattarella? Pare inverosimile. Dunque, Mattarella si dimetterebbe un paio di settimane prima della scadenza del mandato? Pare poco verosimile anche questo. E sono busillis non da poco, questi sì irrispettosi nei confronti di Sergio Mattarella.

Ma il punto più inverosimile dello scenario che circola per i Palazzi da una decina di giorni, è l’ipotesi che, insediatosi al Quirinale, Draghi passi la mano per Palazzo Chigi all’ex Ragioniere Generale dello Stato ed attuale ministro dell’Economia Daniele Franco. Di questo scenario, in ambienti di centrodestra, esiste una versione che vedrebbe calare in quei panni Giancarlo Giorgetti: per quanto l’attuale ministro leghista possa ben aspirare, in un futuro, ad assumere un ruolo di leadership del centrodestra, non ha attualmente quel ruolo.

Tant’è che giusto ieri i ministri leghisti hanno abbandonato a metà la riunione di governo convocata da Draghi sulla delega fiscale, rispondendo evidentemente a un desiderata di Matteo Salvini. Ma almeno, verrebbe da aggiungere, Giorgetti sarebbe un eletto. Perché nello scenario Draghi al Colle e Franco a Palazzo Chigi, avremmo due tecnocrati ai vertici dello Stato. Draghi certo più che legittimato dall’elezione in Parlamento, ma Franco? Avrebbe la fiducia dei partiti? Basterebbe lo spauracchio delle elezioni per ottenere il consenso dei parlamentari, considerando oltretutto che Lega e Fratelli d’Italia non vedono l’ora di andare al voto, e mezzo Paese già strilla ogni qualvolta c’è un tecnico a capo del governo?

Ma soprattutto, e questo è l’interrogativo più drammatico, quale sarebbe il grado di solidità delle nostre massime cariche repubblicane? Eletti da un Parlamento, quello uscito dalle elezioni del 2018, che già non corrisponde più agli umori del Paese - come ben mostra il risultato delle amministrative- delegittimato anche dal dilagare del ricorso ai referendum in atto ( segno vistoso di scollamento con il Paese reale), e che sta per essere dimezzato dalla recente riforma che ha tagliato, dalla prossima Legislatura, il numero dei parlamentari: una delegittimazione che si riverbererebbe sul Quirinale. E lungo l’intero settennato.

Possibile che una personalità del calibro di Mario Draghi si presti a un simile scenario? Mettendo a rischio una luminosa reputazione internazionale, al grido di “Parigi val bene una messa”?

È presto per dirlo, anche se per smentirlo non è mai troppo tardi. Di certo, scenari come questi possono proliferare solo nel vuoto della politica, solo finché qualcuno non prenderà sul serio l’iniziativa, cercando tra le forze politiche il consenso su un nuovo capo dello Stato. E verificando anzitutto la professata indisponibilità di Sergio Mattarella a una rielezione. Toccherebbe, a rigor di logica e anche a seguito dell’ottimo risultato alle amministrative, al partito perno del sistema. Al Pd, e dunque ad Enrico Letta.

Perché poi per fortuna la storia repubblicana insegna che al Colle si entra cardinale ma non se ne esce Papa. Che i nomi che circolano, insomma, da ottanta anni a questa parte son sempre stati scritti sull’acqua.