Mentre scriviamo non conosciamo l’esito dell’incontro tra il governo e i rappresentanti dei partiti di opposizione sul tema scivoloso del salario minimo. Non essendo, tuttavia, Giorgia Meloni una sprovveduta, immaginiamo che abbia in mente qualche idea per chiudere dignitosamente la battaglia di dame, aperta all’inizio di luglio, durante la quale ha conosciuto dei momenti difficili. Se così non fosse, e il governo si presentasse a spiegare quanto la premier ha sostenuto nei suoi “appunti” (argomenti non infondati), alla fine avrebbe dato a Schlein e a Conte un motivo in più di polemica, da aggiungere alla questione del reddito di cittadinanza. Tutto a maggiore gloria delle Feste dell’Unità e dei quotidiani amici. La prima mano della partita sul salario minimo ha rischiato di essere vinta dalla segretaria del Pd, che, fortunata in amore e sfortunata nel gioco, non era mai riuscita ad assicurarsi un piatto, fino a quando, in una mano, le è stato servito un buon punto, in grado di competere di per sé, senza cambiare le altre carte. Elly ha deciso allora di tentare un bluff. Aveva delle buone probabilità di vincere anche se l’avversaria fosse andata a vedere. Fuor di metafora: dopo il disastro elettorale in Molise, è maturata l’intesa, tra i partner di quell’avventura, sulla proposta del salario minimo legale. Di per sé la questione era di un certo rilievo, poteva contare – con qualche forzatura – su di una direttiva europea e soprattutto interessava (grazie all’importo previsto di 9 euro lordi all’ora) alcuni milioni di lavoratori. Valeva quindi la pena di giocare la partita. Se anche fosse stata sconfitta, Elly avrebbe avuto il conforto dei tanti perdigiorno che si accalcavano intorno al tavolo di gioco. In cuor suo la segretaria del Pd sapeva che l’avversaria sarebbe andata a vedere. Anzi, a dire il vero, Elly desiderava che il suo quasi-bluff fosse scoperto e battuto con un punto più alto, proprio per rinfacciare – coram populo – la fortuna sfacciata di Giorgia. E riscuotere la solidarietà degli astanti, che peraltro non avevano simpatia per l’avversaria di Elly. Chi bluffa deve esercitare una pressione psicologica sugli altri giocatori.

Non sappiamo se Elly abbia intuito il punto debole di Giorgia o se abbia solo provato a indovinare. Fatto sta, che la presidente del Consiglio, dopo qualche tergiversare, ha pronunciato l’unica parola detta da un grande attore del “muto” come Buster Keaton, in un film sonoro: “passo”. Tutti si aspettavano che Giorgia andasse a vedere o addirittura che rilanciasse perché aveva capito il bluff dell’avversaria. In concreto, che la maggioranza in Commissione o in Aula chiedesse la votazione dell’emendamento soppressivo e chiudesse così la partita. Sarebbe stata una linea di condotta logica, poiché nessuno poteva pretendere che fosse l’opposizione, che ne aveva preteso la calendarizzazione da molti ritenuta prematura se non provocatoria, a far approvare una sua legge su di un tema a cui maggioranza si era dichiarata contraria. La destra, invece, ha “passato la mano”, chiedendo il rinvio della discussione di 60 giorni per avere il tempo di formulare una propria proposta e non accorgendosi di fare la figura di uno scolaretto che si presenta impreparato all’interrogazione. Su quali elementi ha giocato – più o meno consapevolmente – Elly Schlein? In prevalenza su di uno solo: ha risvegliato l’essenza populista di gran parte della maggioranza, che, alla prima prova seria di un confronto con la demagogia, non se la è sentita di tirare diritto su di una linea di coerenza. Le minoranze hanno messo la testa sotto la mannaia, ma la maggioranza non ha avuto il coraggio di usarla e ha buttato la palla in tribuna per riprendere la partita a settembre. Poi il colpo di scena. Con già i bagagli pronti per un meritato periodi di riposo in una ridente località pugliese, con una mezza promessa di fare un salto in Albania, Meloni ha voluto convocare le opposizioni, le quali si sono sentite incoraggiate nel sostenere il proprio disegno di legge, convinte che la premier fosse in difficoltà nei confronti dell’opinione pubblica. E comunque che avessero tutto da guadagnare nel confronto, perché se il governo fosse restato sulla posizione votata in una risoluzione della Camera, contraria all’introduzione del salario minimo legale, si sarebbe riaperta quella sfida sulla comunicazione, da cui il governo si era salvato con il rinvio. Se fossi nei panni della premier, non mi presenterei a mani vuote, ma tenterei di sparigliare il gioco degli avversari. Non già per verificare le disponibilità di Carlo Calenda, ma per spiazzare tutto il “campo largo” alla prima uscita.

Perché non proporre di passare la palla al CNEL, dove siedono quella parti sociali che sono state emarginate nel mese di luglio e che invece possono dare un contributo non solo sul salario minimo ma su di un pacchetto di misure che affronti in modo organico la questione del lavoro povero? Un No delle opposizioni a questa ipotesi le metterebbe in difficoltà.