“Cui prodest?”, diceva qualcuno tanto tempo fa, e il quesito su a chi giovi veramente, a livello politico, la decisione del ministro dell'Interno Matteo Piantedosi di disporre l'accesso ispettivo per il Comune di Bari, sta animando nelle ultime ore i capannelli in Transatlantico. Perché se è vero da una parte che il centrodestra ha risposto compatto alle accuse lanciate dal primo cittadino del capoluogo pugliese Antonio Decaro nei confronti del governo, parlando anche di «atto di guerra» dell'esecutivo contro la sua città, e che a tre mesi dal voto non manca chi, a livello locale, sia animato dall'intenzione di trarne un beneficio elettorale a breve termine, è vero anche nel medio termine la mossa del Viminale potrebbe risultare controproducente almeno per due terzi della maggioranza.

Qualcuno potrebbe obiettare e lo sta facendo – che un atto di questo tipo non può tenere conto delle scadenze elettorali e delle opportunità politiche, e che dunque sia legittimo che Piantedosi, qualora abbia ritenuto giusto procedere, non si sia fatto condizionare dalla contingenza, ma va detto che l'istituzione della commissione per l'accesso ispettivo non scatta obbligatoriamente e, in passato, l'avvio della procedura che può portare allo scioglimento di un Comune per infiltrazioni mafiose è stata ritardata o modulata in base a considerazioni difficilmente scindibili dall'opportunità politica. A mezza bocca, quello che ha lasciato perplessi un po' tutti è il fatto che a Bari si voterà tra poco e che quindi è impossibile non considerare che l'accesso ispettivo avrebbe sollevato questo tipo di reazioni e una polemica destinata a non esaurirsi in breve tempo. Qualche anno fa, per fare un esempio, vi era stata una polemica a parti invertite per uno scioglimento che non arrivava dal governo di centrodestra e che invece, per il centrosinistra, avrebbe dovuto essere sacrosanto ma era stato bloccato per motivi politico- elettorali dall'allora inquilino di Palazzo Chigi Silvio Berlusconi.

Si trattava del Comune di Fondi, in provincia di Latina, feudo del parlamentare azzurro Claudio Fazzone, che fu accusato di aver fatto pressioni attraverso il Cavaliere sul Viminale (retto all'epoca dal compianto Bobo Maroni) per scongiurare uno scioglimento disastroso dal punto di vista delle conseguenze elettorali. Per settimane gli esponenti gridarono allo scandalo, che a loro avviso culminò nelle dimissioni di tutta la giunta di centrodestra, proprio per evitare l'intervento della magistratura.

Al netto delle nemesi storiche, nei capannelli di cui sopra si dice che l'affaire barese non arreca di certo fastidio a Matteo Salvini, il leader politicamente più vicino a Piantedosi e quello più decisamente più “esuberante” negli ultimi tempi, e destinato ad esserlo ancor di più nelle prossime settimane, man mano che il calendario di avvicinerà alle Europee.

Decaro non è ben visto da tutto il centrodestra, ma in seno all'Anci presieduta dal sindaco barese l'opposizione interna al partito dei primi cittadini dem è costituita dai leghisti, in virtù del loro radicamento nei piccoli centri del Nord. Una convivenza non sempre facile, e lo si è visto quando il Carroccio ha tentato il blitz in aula al Senato, qualche giorno fa, sull'abolizione dei ballottaggi. Dall'Anci è arrivata in tempo record una nota al vetriolo dello stesso Decaro, che protestava vivacemente, sottolineando che ogni modifica delle leggi elettorali dei comuni devono essere concertate coi comuni stessi. In quel frangente era emerso invece un certo imbarazzo dalle fila di FdI e Fi, per la riapertura di un fronte coi sindaci che avrebbero preferito lasciare per il momento sguarnito.

Anche se nessuno lo ammetterà apertamente, lo scontro col “partito dei sindaci” (e quindi con l'ala riformista del centrosinistra) non giova a Forza Italia. Il partito di Antonio Tajani, infatti, ha appena incassato forse il più grande successo politico del post- Berlusconi, portando dalla propria parte il Terzo Polo nel sostegno a Vito Bardi in Basilicata e probabilmente ad Alberto Cirio in Piemonte, ma segnali come la reazione sdegnata di Carlo Calenda alla decisione di Piantedosi potrebbero in qualche modo ricompattare un campo larghissimo con le ossa spezzate dalla sconfitta abruzzese e dallo psicodramma lucano. Non giova alla causa dell'abolizione dell'abuso d'ufficio, per le stesse identiche motivazioni appena esposte.

In mezzo a questo bailamme sta la premier Giorgia Meloni, incerta tra il perseguire lo standing da statista europeo e tenersi distante da polemiche di questa natura, e il continuare a indossare il famoso elmetto e farsi trascinare nell'agone senza esclusione di colpi bassi dai suoi cacicchi.